Louise Glück, la rivincita della poesia

di Massimo Bacigalupo*

“At the end of my suffering/there was a door”. Alla fine del mio soffrire/c’era una porta. Louise Glück, “L’iris selvatico”, Il Saggiatore 2020. (Foto di Paola Ciccioli)

Louise Glück , Poetry as Revenge on Circumstances

The Nobel Prize in Literature for 2020 was awarded to former U.S. Poet Laureate Louise Glück, for the “austere beauty” of her work and for “making individual experience universal”. In her thirteen poetry collections she espresses the power oh human consciousness to confront private and public trauma and engage the mysterious salace of nature. Her poetry is singularly appropriate to our times, when millions have been forced by the pandemic to rely on their own resources and resilience and to turn to art for consolation and and answers to pressing questions of life and death.

Il Premio Nobel per la letteratura 2020, assegnato alla settantasettenne statunitense Louise Glück (si pronuncia “glick”), ha richiamato l’attenzione internazionale su questa eccellente eppur defilata “poeta” (oggi si dice così). In patria le tredici raccolte edite fra 1968 e 2021 sono ampiamente note ai (sempre pochi) lettori di poesia; nel 2012 le prime undici sono state accorpate in un volume di oltre seicento pagine. Fin dalle prime prove, le sue liriche scarne, fatte di pochi versi brevi e di immagini e sentimenti forti, e nondimeno misteriose, sono state accolte con favore guadagnandole via via i maggiori riconoscimenti, fra cui il Pulitzer per L’iris selvatico (1992, tradotto in Italia nel 2003) e l’incarico di Poeta laureata degli Stati Uniti.

Oggi dappertutto nel mondo si legge o ci si appresta a leggere questa voce dalla «austera bellezza» che «rende l’esperienza individuale universale», come si legge nella motivazione dell’Accademia di Svezia che, premiandola, ha combinato una delle sue periodiche sorprese. Questa poesia così intima e in alcuni casi ermetica ha la possibilità di parlare oltre i confini linguistici e nazionali? È un atto di fede, ma la poesia lo richiede sempre, disarmata com’è, scarsamente protetta da grandi interessi commerciali.

Una formazione travagliata

Glück ebbe un’infanzia in una famiglia ebraica colta e benestante, una formazione insieme privilegiata e difficile. La madre educò le due figlie a primeggiare, lesse loro i miti greci e la storia di Giovanna d’Arco («senza il rogo», avverte Glück), le iniziò a musica, disegno, recitazione… Louise per un po’ ambì a fare l’attrice, «perché volevo essere al centro dell’attenzione, ma ero negata, legnosa… Non sono stata una teenager popolare, ero troppo diversa». La reazione viscerale a questa formazione all’eccellenza fu una grave anoressia, da cui Louise uscì grazie alla psicoanalisi. La quale, dice, le insegnò a pensare, e costituisce un filo rosso del suo lavoro, che non ha paura di guardare ed esprimere le emozioni più segrete, ma è insieme corazzato, privo di incertezze ed esitazioni. E formalmente perfetto.

Del resto la passione per il linguaggio e il desiderio di scrivere poesia ed essere letta è presente fin dall’adolescenza e prima. Nel discorso per il Nobel, Glück ricorda sé stessa a sei anni che istituisce competizioni fra le poesie preferite, Il bambino nero, di William Blake, e Swanee River, nostalgica canzone ottocentesca, e consegna la vittoria a Blake, dolce poeta rivoluzionario. «Ma più tardi compresi come erano simili queste due liriche; ero attirata, allora come oggi, dalla voce umana solitaria, che esprime lamento o nostalgia. E i poeti su cui son tornata crescendo sono quelli nella cui opera io stessa svolgo, da ascoltatore privilegiato, un ruolo cruciale. Intimi, seduttivi, spesso furtivi o clandestini. Non poeti da stadio. Non poeti che parlano a sé stessi. Mi piaceva questo patto, mi piaceva l’idea che quel che la poesia dice è essenziale e anche privato, il messaggio ricevuto dal prete o dall’analista».

La poeta Louise Glück ritratta da Katherine Wolkoff nell’articolo qui riprodotto. La foto dal “Notiziario” della Banca Popolare di Sondrio è di Paola Ciccioli

Le ragioni del Nobel

L’insistenza sul mondo privato, che pure si comunica in un dialogo intimo attraverso quello strumento condiviso che è la scrittura, la pagina, la voce, getta luce sulle ragioni dell’assegnazione del Nobel a Glück in un anno segnato dalla pandemia e dal confinamento, un anno di bilanci pubblici e privati. La sua poesia parla di disagi e ostacoli che sono superati ma non ignorati dalla forza dell’espressione che, dice lei, è «una vendetta sulle circostanze»: da agiti diveniamo agenti, le parti infinitesimali del tutto a loro volta rispecchiano e condensano, conoscono quel tutto. La poesia come registrazione di momenti di forza e conoscenza raggiunta. È la lezione dei romantici, in particolare di William Wordsworth nel suo Preludio (1805), poema autobiografico che ai disastri della storia (l’involuzione della Rivoluzione francese) risponde con una scoperta dell’interiorità e insegna ad attingere alle sue risorse inesauribili. A sua volta Glück , così lirica e spoglia, riprende una costante della poesia americana, che è spesso didattica, insegna a lasciare il superfluo e scoprire sé stessi (Witman, Dickinson, Eliot). Non senza gioco e ironia, interiorizzando i fenomeni nella loro meraviglia e complessità.

Così, in risposta agli attentati dell’11 settembre 2001, Glück (newyorkese di nascita) pubblicò una sequenza poetica in sei sezioni intitolata October, che poi aprirà la successiva raccolta Averno (2006, traduzione italiana 2019). Il riferimento, fin dal titolo, è del tutto indiretto, si parla solo di uno smarrimento che non trova consolazione nell’estate di San Martino: «Estate dopo che l’estate è finita, / balsamo dopo la violenza / non mi fa bene / che mi faccia bene ora; / la violenza mi ha cambiato… Dimmi che questo è il futuro, / non ti crederò. / Dimmi che sto vivendo, / non ti crederò».

Ma la poeta non rinuncia al compito della espressione privata che poi parla per noi: «È vero che non c’è abbastanza bellezza nel mondo. È anche vero che non sono in grado di recuperarla. / Nemmeno abbastanza candore, e qui potrei essere di qualche utilità. // Sono / all’opera, anche se sono silenziosa». Versi lunghi si alternano a versi brevissimi, con a capo recisi. «I am / at work». Glück non teme di parlare in prima persona, anche se non di rado «l’io è una persona presunta» (come diceva la sua maestra Dickinson). Nei versi di Ottobre rivendica per sé il “candore”, cioè il discorso aperto, senza inganni e allettamenti. Ma anche la bellezza, sappiamo, non le manca.

E non manca, a saper aspettare, nel mondo. La natura ha un luogo privilegiato in questa poesia. Cos’ conclude Ottobre: «Sopra i campi, / sopra i tetti delle case del paese, / il fulgore che ha reso possibile ogni vita / diventa le fredde stelle. // Stai immobile e osserva: / non danno nulla ma non chiedono nulla. // Da dentro l’amara / disgrazia della terra, freddezza e sterilità // sorge la mia amica luna: / è bella stanotte, ma quando mai non è bella?». È la consolazione del mondo, e di aver saputo elaborare il lutto, parlare in maniera memorabile ed esemplare, eppure così semplice.

Leggendo Ottobre col pensiero a quei giorni cupi di inizio millennio la poesia diventa chiara, una parola che una sola persona sa dire per tutti, anche per noi che leggiamo dopo vent’anni, in un’altra cultura e in altre tragedie. Lo strumento espressivo messo a punto da Glück è capace di superare queste barriere. Il suo “lavoro” silenzioso produce testi convincenti, essenziali, che grazie anche al Nobel potranno essere interrogati da tanti. E la poesia anche più misteriosa (e Glück lo è spesso) ha la capacità di rispondere se interrogata. Chiaro, la risposta la diamo noi. Il poeta offre la traccia di un percorso e se ha la forza e autorità, aura, ci spinge a seguirlo. Le poesie sono come i quadri dei di tuttimaestri in un museo: ci abituiamo al loro linguaggio, li guardiamo più volte, magari un giorno ci dicono poco, un altro più fortunato (magari con una brava guida!) li scopriamo come imperdibili e consolanti.

Mito e corpo

La raccolta Averno che comprende Ottobre porta il nome del laghetto craterico presso Napoli per cui si accedeva agli Inferi. Appassionata di miti, anche per via dell’analisi, Glück ritorna più volte in queste poesie sulla storia di Persefone rapita da Ade, Dite o Morte e condotta nell’oltretomba, da cui ritornerà donna dopo che la madre Demetra ne avrà ottenuto la restituzione periodica. Così la terra alternerà estate e inverno. Glück intreccia liberamente mito e privato, creando un racconto in vari momenti. Ha spesso parlato del rapporto conflittuale con la madre (origine dell’anoressia) e ha detto che usando il mito «posso prendermela con Demetra anziché con mia madre».

Averno è sì una raccolta di diciotto poesie brevi e lunghe, ma è anche un unico testo ricco di riferimenti interni. La terza e l’ultima poesia hanno lo stesso titolo, Persefone l’errante, e sono meditazioni personali sul mito. «Persefone sta facendo sesso all’inferno. / A differenza di tutti noi, lei non sa / cosa sia l’inverno, solo che / lei ne è la causa. // È coricata nel letto di Ade. / Cosa c’è nella sua mente? / Ha paura? Qualcosa / ha cancellato l’idea / della mente? // Lei sa che la terra / è affare di madri, questo almeno / è certo. Sa anche che / lei non è più ciò che si dice / una ragazza». È un quadro animato, domande e risposte, la storia di una iniziazione. A questa interrogazione così diretta, immedesimazione, diciamo, si accompagnano nelle altre poesie memorie e dialoghi (anche, ironicamente, con un immaginario (?) psicoanalista). Il lettore ha da lavorare e scoprire come in tutte le raccolte di Glück.

Fra cui la più felice rimane L’iris selvatico: soliloqui in un giardino del Vermont dove Glück viveva col secondo marito John e il figlio Noah e mette in scena delle voci che si intrecciano. I fiori pregano il giardiniere, questi si rivolge al suo Dio, quest’ultimo risponde con indulgenza ma anche irritazione: «Non potrei rifarlo, / riesco appena a guardarlo: // nel giardino, nella pioviggine / la giovane coppia che pianta / un solco di piselli, come se / nessuno l’avesse mai fatto prima… ». L’inesplicabile fenomeno umano rende perplesso anche il Creatore.

Bastano questi cenni a rivelare la grande originalità di Glück, la sua fantasia mitica eppure aderente a un’esperienza vissuta sul corpo. Nella raccolta A Village Life (2009) parla, come spesso negli ultimi libri, di vecchiaia: «Mio corpo, ora che non viaggeremo insieme per molto / incomincio a provare una nuova tenerezza per te, molto immatura e insolita, / come quel che ricordo dell’amore da giovane – // amore che era spesso sciocco nei suoi oggetti / ma mai nelle sue scelte, le sue intensità…» (Crocevia).

Anche questa è una chiave. «Da ragazza volevo essere tutta mente, tutta pura», racconta Glück, «solo che sarei morta» (di anoressia). La poesia come dialogo con la fisicità ritrovata, un lungo percorso, con un esito sereno, anche se complesso e fantastico, sempre sorprendente. Il lettore non si pentirà di intraprenderlo accanto a questa magistrale esploratrice della condizione umana.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

*Massimo Bacigalupo è professore emerito di Letteratura angloamericana all’Università di Genova e traduttore della poeta Premio Nobel 2020.

Si ringrazia la rivista “Il Notiziario” della Banca Popolare di Sondrio che ha gentilmente concesso, d’intesa con l’autore, la riproduzione del presente articolo, pubblicato sul n. 145 – Aprile 2021 e visionabile anche al link (https://nonsolobanca.popso.it/notiziario).

(Pubblicazione sul blog a cura di Paola Ciccioli)

AGGIORNATO IL 18 AGOSTO 2021

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