2 giugno 1946: «votavano anche le donne, e non era certo una novità da poco»

di Giovanni Sabbatucci

Celebriamo la festa della Repubblica con l’articolo dello storico Giovanni Sabbatucci apparso nel primo capitolo di “Storia di una Repubblica. Enciclopedia politica dell’Italia dal 1946 al 1980”, iniziativa a fascicoli de “L’Espresso” quando il settimanale era diretto da Livio Zanetti.

Foto di Paola Ciccioli

Il 2 giugno 1946, il giorno stesso in cui venivano chiamati a pronunciarsi per la monarchia o per la Repubblica, gli elettori italiani scelsero i 556 deputati che li avrebbero rappresentati all’Assemblea costituente. Delle due consultazioni elettorali, la prima – dove la scelta era più elementare e più carica di implicazioni emotive – finì col far passare in secondo piano la seconda, che pure non era meno importante. Per la prima volta dopo venticinque anni, il popolo italiano poteva scegliere i suoi rappresentanti in una libera competizione elettorale. Per la prima volta nella storia delle consultazioni politiche in Italia, votavano anche le donne: e non era certo una novità da poco.

Per la verità, molte indicazioni sull’orientamento dell’elettorato erano venute dalle consultazioni amministrative che si erano tenute nella primavera dello stesso anno (e avevano visto un netto successo della Dc). Ma il test nazionale era molto più significativo e molto più importante era la posta in gioco.

Le operazioni di voto si svolsero nel massimo ordine e fecero registrare un’altissima affluenza alle urne: la percentuale dei votanti sugli aventi diritto sfiorò infatti il 90 per cento (e si sarebbe mantenuta su questi livelli per tutta la storia dell’Italia repubblicana, mentre in periodo liberale non aveva quasi mai superato il 60 per cento). In cifre assolute, gli elettori risultarono quasi quadruplicati (da 6.700.000 a circa 25 milioni) rispetto alle ultime elezioni prefasciste, quelle del 1921.

I risultati delle elezioni confermarono in larga misura le indicazioni emerse nelle amministrative di primavera. La Dc si affermò con ampio margine come il partito di maggioranza relativa, con oltre il 35 per cento dei voti. Seguivano a notevole distanza i due partiti operai, Psiup e Pci, rispettivamente col 20,7 e il 18,9 per cento. Liberali e demolaburisti, che si erano coalizzati nell’Unione democratica nazionale e presentavano nelle loro liste i più illustri superstiti della classe dirigente prefascista (da Orlando a Nitti, a Croce e a Bonomi), non andarono al di là di un modesto 6,8 per cento. A destra ottennero una discreta affermazione i qualunquisti che, con il 5,3 per cento dei voti, inviarono alla Costituente un manipolo di trenta deputati: circa il doppio di quanti ne ebbero i monarchici, presentatisi sotto le insegne del Blocco nazionale per le libertà. Fra gli schieramenti minori di centro-sinistra, i repubblicani (4,4 per cento) reggevano bene; mentre il partito d’azione (1,5 per cento) rivelava l’assoluta mancanza di basi reali nel paese.

Nel complesso i risultati del 2 giugno confermavano una tendenza già emersa chiaramente nelle elezioni del 1919 e del 1921: quella che premiava i grandi partiti di massa a scapito delle vecchie formazioni democratico-liberali. All’interno di questa tendenza generale si possono individuare due distinte componenti. In primo luogo la definitiva affermazione del partito cattolico come forza egemone, capace di sostituirsi ai liberali nella rappresentanza della borghesia moderata senza per questo perdere le sue basi di massa. Rispetto al vecchio partito popolare, La Dc mostrava una maggiore capacità di penetrazione nel Mezzogiorno, un tempo riserva incontrastata dei notabili liberal-democratici.

In secondo luogo vi fu, rispetto alle ultime elezioni prefasciste, una crescita complessiva della sinistra. Socialisti e comunisti, che nel ’21 avevano ottenuto assieme il 30 per cento dei voti, ora raggiunsero quasi il 40 per cento: un tetto che non sarebbe mai stati superato fino al 1968. Anche la crescita dei partiti operai rientrava in un trend di lungo periodo, bruscamente interrotto dal fascismo. La novità stava nel fatto che ora il movimento operaio era rappresentato da due partiti di forza più o meno uguale (mentre nel 1921, all’indomani della scissione di Livorno, il rapporto era di cinque a uno a favore dei socialisti). Il Psiup conservava ancora un vantaggio di circa due punti percentuali sui fratelli-rivali. Questo vantaggio, però, non era tanto il risultato di una presenza più attiva o di una linea politica più convincente, quanto il residuo di una tradizione che non si era mai spenta del tutto: un’eredità che peraltro sarebbe stata dissipata nel giro di pochi anni.

(a cura di Paola Ciccioli)

#donnedellarealtà

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