Testo e foto di Ivana Tamoni De Vos
Alzi la mano chi non ha sognato, mentre le nostre libertà erano vigilate e costrette, di cambiare ambiente, di correre all’aria aperta, stare in veranda o in giardino e respirare a pieni polmoni, mentre il ricordo del trolley era l’emblema del sogno e del viaggio che premia. È definitivamente nata la tendenza di abbandonare le città – potendo – per andare a vivere in campagna, dopo aver riscoperto l’autenticità delle piccole cose e un maggior controllo sulla qualità della propria vita. Uguale intendimento dovunque per i city quitters, ossia coloro che lasciano la città, creativi, fortunati e alternativi. Anche a me è successo e ora so apprezzare con molta naturalezza momenti preziosi del quotidiano.
In questi giorni in cui il disgelo libera in montagna manciate di terreno trapuntato di fiori, condividere ad esempio la natura con un meteo strabello insieme ad un’amica, saggiare i ramponi e vedere le differenze del sentiero tra estate e inverno, ricordare volate Cai sulle stesse orme e sentirne l’eredità, facendo un picnic sulla neve in quota in uno scenario da favola, con il solo canto degli uccelli tra il verde e il blu, e mettere gli occhiali da sole alla nostra mascotte, cagnolina Diana, sono momenti impagabili. Perché il mezzo panino alla frittata su in alto te gusta mucho, perché il sole non acceca, ma incendia dentro, perché il respiro puro è ampio come il paesaggio, perché ritrovi te stessa anche con un anno in più e non riesci a vedere il tasto del selfie sul nuovo cellulare, perché non senti la neve entrata nello scarpone e scatti foto alla cieca che va bene lo stesso, perché provi libertà… Perché vedi ancora la nuova stagione che sboccia nel vero bucaneve e ti senti parte del Creato.
Identità, abitudini di vita e orizzonti temporali sono stati rivoluzionati da più d’un anno in tutto il mondo e almeno in questo abbiamo condiviso una totale globalizzazione. Se studiamo più da vicino la resistenza al temibile virus, ci sono però dei distinguo sulle svariate reazioni di ognuno di noi. Con coscienza o involontariamente gli avvenimenti si attraversano viaggiando come in galleria e all’uscita si è in movimento con un ritmo diverso.
A fine ottobre, quando mi sono trasferita con un borsone e poco altro nella seconda casa di montagna, pensavo fosse per una decina di giorni. E invece sono ancora qui, sei mesi dopo, e mi rendo conto solo ora di aver fatto un passo molto diverso dalla consuetudine. Prima erano esistiti i week-end frenetici e gli esodi canonici dalla città per le ferie, non ero mai riuscita a capovolgere in tal modo la routine, eppure non sarebbe stato impossibile. Dall’analisi cerco risposte, e non sono l’unica, bombardati come siamo da mesi dagli stessi temi legati al virus che ha preso il predominio sulle nostre vite, anche se ci rifiutiamo di ammetterlo.
Il primo lockdown della primavera scorsa è stato come fare una doccia fredda al buio. Poi le successive limitazioni sono state suscettibili anche di ragionamenti perché a poco a poco abbiamo imparato a reagire e a difenderci. Sembra tanto tempo fa, ma non siamo addormentati da un cattivo incantesimo come nelle fiabe: la nostra appariva l’era indiscussa delle smart cities, ricche di servizi a portata di mano, entro le quali i cittadini dovevano muoversi secondo canoni ben precisi, produrre e consumare, il resto veniva sempre dopo. Bisogni secondari apparivano la vicinanza alla natura, il tempo libero da vivere esenti da scelte suggerite e stereotipate secondo ritmi e noti diktat ai quali adeguarsi, come essere sempre aggiornati sull’ultima mostra e i film appena usciti. Protagonisti e vittime allo stesso tempo del fruire e del consumare. Per anni, molti di noi hanno vissuto così, ordinando cibo a domicilio, vivendo di sushi, tramezzini e apericene, partecipando ad eventi più come comparse con accanto telefonini roventi per essere più “social”.
Non nego di non essere rimasta affascinata dal ritorno culturale alla metropoli dopo anni d’allontanamento; quando arrivi essa t’accoglie e ti mostra meraviglie, Milano dopo l’Expo era diventata l’ombelico del mondo. Ma sei hai vissuto sette vite come i gatti, non puoi omettere a lungo gli spettacoli della natura e i silenzi più veri, e non accorgerti del cielo che cambia colore o della luna piena così vicina da poterla toccare.
Il prezzo da pagare per lavorare bene, avere e permettersi molteplici interessi, è vivere isolati in appartamenti, piccole o grandi cellette, con tante comodità che limitano contatti, movimento e curiosità. Ho avuto amiche che hanno malcelato la loro sorpresa nell’udire che sono mesi che vivo in un piccolo comune di montagna e ci sto bene, anche se tanti sono gli ambiti sui quali interrogarsi e diverse le esigenze per ogni età. Questo periodo ci ha insegnato a guardarci dentro, a cercare il mood delle proprie radici o del sogno mai vissuto, ci ha allontanati dalla smania di carriera, mettendoci al riparo di quanto già possediamo, con il ritorno ad aspetti di vita più spartani e meno consumistici, facendoci persino amare il silenzio.
Lo smart working è diventato un prezioso modo di lavorare a distanza rispetto alla visione urbano-centrica fin qui adottata. Ci siamo chiesti cosa non è città, che non è vivere in territori urbani di periferia, ma anche cosa manchi alla città, concetti tanto diversi se in primis ci si rapporta alla densità di popolazione in una città. Semplicemente, da noi e altrove, sono stati riscoperti piccoli borghi e seconde case per sopravvivere ad una pandemia più umana, adottando un apparente ritiro che ha significato una maggiore apertura verso sé e gli altri, nel tentativo di eliminare frenesia e stress in nome di contatti umani più personali.

La nostra autrice ci ha inviato questo suo racconto da Schilpario, paese bergamasco in Alta Val di Scalve.
Nel mio piccolo comune bergamasco, Schilpario, in Alta Val di Scalve, che conta circa 1.150 residenti, questi mesi sono volati in nome della semplicità: qualcuno già da tempo mi ha chiesto se mi fossi trasferita, mi ha detto che vedere le finestre di casa aperte e le luci la sera fa piacere e mi ha invitata ad aggiungermi alla corale locale. In attesa di tempi migliori, posso dire che oggi, cioè nel mentre di questa pandemia ancora in corso, vivere fuori città m’appare una fortuna, convinta di mantenere le connessioni con essa fin qui acquisite senza rigettarle. So anche per certo che mi piace assistere e vivere i cicli vitali della natura che anticipa, non fa passi indietro e ci dà ritmo e so anche che molte abilità del fare da soli sono state perse nel corso della vita moderna, perché eravamo e proveniamo dalla società terziaria che offre servizi.
Intanto i quartieri commerciali delle metropoli, tristemente svuotati, attendono la ripresa economica e tutti quelli che vorranno rientrare. La città, sopportata anche nel caro-vita, si farà più attraente quando avrà almeno costi minori con opportunità che le giovani generazioni sapranno indubbiamente cogliere. Perché il loro prima è più breve del dopo che li attende. Per contro altri uomini e donne saranno ben lieti di aver riscoperto le bellezze d’un piccolo paese, di un’Italia minore, se si può dire, che trasuda cultura e profonde tradizioni in ogni dove. Ben vengano le emozioni, ricerchiamole. Nel proprio ambiente di vita, arte e cultura s’accompagnino al saluto del nostro prossimo o al fragore d’una valanga che scende dai monti a primavera.
#donnedellarealtà