«Nella città dove le strade torneranno a riempirsi di vita»

di Maria Elena Sini

C’è la possibilità che tutta l’Italia si fermi ancora a causa della pandemia e al diffondersi delle varianti di Sars-Cov-2. La nostra necessità di spostarci liberamente e viaggiare resta sospesa tra ricordi e progetti, i libri ci aiutano a recuperare emozioni accantonate e a ripensare i percorsi che vorremmo compiere. Con questo suo post pubblicato il 28 marzo 2020 nel Gruppo Facebook di “Donne della realtà”, Maria Elena Sini ci riporta al primo lockdown e a Sassari, la sua città. Lo fa con le parole di Elio Vittorini, della cui passione per la letteratura di viaggio parla nel filmato* Demetrio Vittorini, il figlio dello scrittore e curatore editoriale nato a Siracusa il 23 luglio 1908 e morto a Milano il 12 febbraio 1966.

In questi giorni in cui siamo costretti a stare a casa, dopo lunghe ricerche tra gli scaffali della mia libreria, ho ritrovato questo libro che pensavo di aver prestato ed ero convinta non fosse più rientrato a casa. Si tratta di Sardegna come un’infanzia, scritto da Elio Vittorini in occasione di un viaggio nell’isola nel 1932 organizzato dalla rivista “Italia letteraria” e abbinato ad un concorso di letteratura e giornalismo. Di questo réportage, un po’ poema in prosa e un po’ presentazione di paesaggi e figure che quasi un secolo fa avevano un sapore mitico e leggendario, ho deciso di riportare alcune delle pagine dedicate a Sassari, perché descrivono bene il carattere della mia città vivace, caratterizzata da un’ironia pungente e graffiante, che ha sempre amato i luoghi di incontro dove ballare, mettere a confronto le proprie idee, divertirsi.

La città dei nostri giorni è molto diversa da quella descritta da Vittorini, esistono forti contrasti sociali, la crisi economica ha inciso fortemente sul suo tessuto produttivo ma oggi la città sta soffrendo, ci sono molti contagiati dal Covid 19 soprattutto tra gli anziani e gli operatori sanitari e allora stamattina non voglio fare polemiche, verrà il momento per fare i conti, ma attraverso le parole sognanti e l’occhio pieno di nostalgia dello scrittore vorrei ricordare lo spirito della città dove le strade torneranno a riempirsi di vita pur con tutte le contraddizioni che ben conosciamo, dove si uscirà ancora la sera, dove si litigherà per il calcio, per la politica, per un tradimento, per un debito non pagato, ma poi si potrà fare la pace mangiando e bevendo insieme in allegria.

«… E quando è notte piena noi siamo già assai oltre coi nostri occhi di gatto spalancati sulla via maestra. Incontriamo gente a cavallo o lunghe file di asinelli, che procedono nella nostra direzione. A Sassari eh! Quanti parafanghi ancora? Eccoci poi sotto i suoi lumi. Noi nel buio dell’uliveto e Sassari attorno a noi, d’ogni lato, coi suoi popoli di lumi. Entriamo da una parte, tra case e arbusti, ma non è ancora la vera città; che sembra giri dall’altra parte. Ora c’è una valle nera fra noi e il maggior numero di lumi. E più avanziamo più quella valle si allarga, più quei lumi si allontanano. Ho paura si sia finiti in qualche altro paese, dirimpetto alla Sassri vera, e chiedo al primo che passa se qui è proprio Sassari. Quello mi risponde come gli avessi chiesto se il sole è veramente il sole. “È Sassari” […] È una città veramente diversa da tutte le nostre di montagne e di pianura. A tratti da una piazza si esce sopra una steppa di buio. O si sprofonda dentro viottoli di piena campagna dai quali non si vedono più i lumi che ci siamo lasciati dietro e quelli che avevamo davanti. Bisogna andar sempre per le vie piane, se ne infiliamo una che scende, addio, è come calare in mare, e il luminoso piroscafo prosegue nella sua rotta senza curarsi di noi; non ci si rimette più piede. Difatti ci tocca chiedere a due che passano: una coppia di borghesi che va a ballare. Diventiamo subito amici, per la loro briosa espansività, lei è una signorina vestita di un lungo abito bianco sotto la minuscola giacca, lui un giovanotto, suo fratello, dice, ridono continuamente e vogliono condurci con loro. Alla luce del primo fanale che capita vedo che lei è piuttosto bella. Apposta ha rivolto il viso alla luce, per farcelo sapere subito, coi suoi occhietti verde-oliva. E allunghiamo il passo perché abbiamo voglia di abbracciarci dentro il ballo. Nell’aria si avverte un fremito di violini. È il cuore notturno della città, e tutte le strade e i vicoli, dove ormai non si incontra nessuno, dolcemente ne pulsano. Entriamo nel palazzo dove si balla, è il circolo sassarese, eppure sembra una casa privata, di barone locale o governatore, e un’auretta molto ottocento vi spira. Saloni rossi, dorati alle alte cornici con un gusto da piccola civiltà per conto suo, che ha importato dall’Europa quanto è decoro mondano. Si direbbe una reggia d’Armenia o montenegrina. E dov’è la sovrana? Dov’è il principe consorte? Ci presentano bei dignitari in gardenia, dame dal ventaglio piumato, e uno che parla forte fa come da padrone di casa, comincia a svelarci segreti, ci consiglia circa le ragazze con cui ballare, poi ci porta a bere. Traversiamo una sala piena di ufficiali dai lunghi calzoni, tutti in piedi, e di baroni, a quanto sento, e di donne scollate che s’informano della nostra presenza non in smoking, studiandoci con l’occhialino. Ma nella stanza accanto c’è gente che gioca e molti hanno una barba di quattro giorni, qualcuno è in abito di velluto alla cacciatora. Accanto, in un’altra stanza, vecchie signore in gonna e giustacorpo, come in costume, ma in rigorosissimo nero, discorrono sedute in riga lungo i muri. M’è parso di sentirle parlare francese come le contesse di Tolstoi. Al bar un grassone dalla enorme camicia inamidata, che il nostro duca saluta commendatore, appoggiato a una consolle, con un lieve fiato di gatto, sonnecchia. Ecco dunque, sopra il popolo scontroso e meditabondo, questo strato di gente che si diverte, ride, balla, e si dà ritrovo, come se il gioco della civiltà borghese, imparato appena, desse loro il solletico […] Mi sono svegliato di colpo, con la paura che fosse assai tardi. Poi s’ode la scarica di una saracinesca. Poi campane. Non avendo meta, cammino incontro ad esse. Ma il movimento delle strade, che è vivo, a poco a poco mi distrae. C’è, almeno nelle principali, il formicolio degli stessi borghesi che ieri sera ballavano. Le stesse belle ragazze dagli occhi verde-oliva. L’incredibile cinese incontrato a Tempio. Carrettini sospinti a mano da scamiciati. Ragazzi in bicicletta. Automobili. Insomma lo stesso genere di folla d’una qualunque cittadina meridionale. E tuttavia mi par d’essere nel quartiere europeo d’una immensa città di colore che sfumi lontanissima in sobborghi di tende e capanne […] Mi trovo in una piazza dalle case basse che al sole sembrano di sabbia. La terra è tesa sotto i colpi. Alzo gli occhi e un enorme naviglio mi viene addosso: la facciata del Duomo; come mai ne vidi d’un barocco così esotico. Dapprincipio si direbbe in legno, un gigantesco mobile tarlato. Ma presto si capisce con quanto peso di pietra torreggi. È d’una pietra color tortora. Formicola, anzi vermina, di tutte le sue foglie e le sue teste d’angioli. Pure non le si vorrebbe toglier nulla, non ha un segno che sia superfluo, ormai, e dentro al martello delle sue campane stormi di uccelli che spiccano il volo dalle cornici pare lascino neri vuoti nella pietra dove prima erano pietre, tra il fogliame e le teste d’angioli, essi pure».

*Il video è stato girato da Paola Ciccioli il 4 novembre 2019 nella biblioteca “La Filanda” di Mendrisio, in Svizzera, e disponibile nel canale Youtube Paola Ciccioli – Incontri. 

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