di Luca Bartolommei
Il 15 agosto, cioè ieri, ricorreva il cinquantunesimo anniversario di Woodstock e mi sento di scrivere qualcosa. Non tanto su quello che riguarda l’evento, il periodo storico, i figli dei fiori et similia ma piuttosto su come, tanto per cambiare, ho vissuto io a Milano tutto quello che a Woodstock era connesso. Sì, perché a quel nome sono legate tante cose, tanti discorsi (troppi), tante fantasie, utopie e miti che hanno caratterizzato il periodo dei primi anni Settanta, quello della mia adolescenza.
L’album triplo mi era stato regalato un Natale e ricordo di averlo ricomprato perché a forza di ascoltarlo, da solo, in compagnia, a casa mia o di altre/i, (sì, era sempre la mia copia che mi portavo appresso) su impianti dignitosi piuttosto che su qualche fonovaglia, poi spiego, si era irrimediabilmente consumato e danneggiato. Insomma Vustoc lo si conosceva praticamente a memoria, ci serviva per cercare di tirare giù ad orecchio il solo di Soul Sacrifice dei Santana o tutta Suite: Judy Blue Eyes (si abbreviava in la Suite) dei Crosby. I’m going home dei Ten Years After la sapeva suonare solo il Turotti (che aveva anche un nome proprio, Angelo), che è stato sempre il numero uno, ma era più grande e sapeva suonare tutta Sweet Jane compresa l’intro, robb de matt!
Una delle cose più simpatiche che capitava era la storpiatura di nomi e cognomi. La quasi totalità della musica che ascoltavamo nel mio giro di amicizie era inglese o americana e, data la diffusione invero bassa della conoscenza dell’inglese tra i giovani, si poteva sentire di tutto. A volte era lo stesso con l’italiano. Ogni strafalcione che leggerete fa riferimento a frasi e parole che sono state realmente pronunciate e da me udite.
Poi arrivò il film, e lì ci fu la rivelazione: diretto da Michael Wadleigh e montato tra gli altri anche da Martin Scorsese, vinse l’Oscar nel 1971 come miglior documentario. Care lettrici e lettori più giovani, o che semplicemente non ascoltavate musica straniera, dovete sapere (e cercare di capire) che allora quasi non conoscevamo i volti dei nostri musicisti preferiti, niente video, poche fotografie, spartiti manco l’ombra, concerti sì e no. La possibilità di vedere e ascoltare tanti artisti tutti in una volta, insieme ad amiche e amici, al prezzo di un biglietto del cinema sembrava quasi non reale.
Si parte in comitiva, a piedi, e si va a Greco in fondo alla via De Marchi dopo il secondo ponte a sinistra, via Bottelli, cinema Abanella, categoria “altre visioni” ma era grande e aveva, se ricordo bene, una buona acustica. Sì perché l’orecchio, almeno quello, ce l’avevamo, dopo anni a tirar giù musica ascoltandola, i più fortunati dall’impianto hi-fi, gli altri dal Geloso o dalla “fonovaglia”. Con questo termine si intendeva la fonovaligia del Reader’s Digest, oggi la trovi su ebay, con la quale si ascoltavano i soli di Jimi Hendrix in stereofonia.
Ciack e sale sul palco Richie Havens, attacca a dare mazzate sulla chitarra con la sua pennata da fabbro, vabbè, ma chi se lo immaginava così sdentato? A volte, la mancanza di immagini è meglio, senza offesa Richie, da vedere non eri bello subito… John Sebastian canta della fidanzatina del figlio di tre anni che prende l’LSD (però…) e tra artisti vari, anche bravi neh, ma che proprio non mi interessavano si arriva alle riprese notturne che sono quelle che mi hanno emozionato di più. Si ascolta blues, soul, folk e poi un ragazzo con una 335 rossa parte a razzo con Aggoho, scimmabeib… urca, eccolo Anvillì (Alvin Lee) dei Ten Years after che spara tutto l’assolo (quello del Turotti) di I’m going home! Scende dal palco portandosi in spalla un’anguria bislunga grossa così che gli ha lanciato qualcuno del pubblico. Poi i Crosby con la Suite (lo schermo si divide in tre parti con riprese differenti) e finalmente il gruppo che volevo assolutamente vedere oltre che ascoltare.
Il mio compagno delle medie Giulio aveva un fratello più grande, Gianni, che ascoltava la musica rock e che passava informazioni, dischi e cassette, le prime, al fratello minore che condivideva poi il tutto con gli amici. Facevamo anche musica insieme, nella sua cantina in Benefattori dell’Ospedale, io con la chitarra classica, ma con le corde di metallo, e lui con una batteria fatta con pezzi di uno strumento quasi giocattolo e con i fustini del Dixan. Ma suonavamo il rock, ricordo addirittura Paranoid dei Black Sabbath. La Rita ci guardava dalla finestrella e ascoltava dal cortile. Un giorno il Giulio arriva con una cassetta dei The Who, che erano poi il gruppo che tanto volevo vedere.
I Tevvù, ovvero The Who, hanno fatto uno spettacolo dei loro, Roger Daltrey con un completino a frange (non con la mantellina che tanto faceva ridere Frank Zappa) a far roteare microfoni per aria, Pete Townsend che zompa sul palco per poi quasi fracassare la chitarra (una SG coi P-90 per la quale noi ragazzi ci saremmo fatti espiantare qualunque cosa) alla fine di un entusiasmante Summertime Blues. Di solito le chitarre le spaccava, lì non c’è riuscito, ma comunque See me, Feel me… ancora adesso mi fa venire i lucciconi, e quando attacca plismituiù agghè de miusic (listening to you I get the music) parte uno dei riff più travolgenti del rock. Mio parere.
Si torna a casa con sensazioni molto contrastanti e le discussioni vanno avanti per molto tempo. Continuano ancora oggi, infatti. Io in Woodstock ho visto, e vedo, della buona musica (anche), tante e tanti fatton* con l’acido fuori dagli occhi, certo, mica solo LSD per carità non poniamo limiti, poco mito e tanta uniformità di vedute e comportamenti, molte e molti prigionier* proprio della loro presunta libertà. Bisogna poi rivedere il tutto attraverso gli occhi di chi, quattordici/quindicenne viveva in Italia e pensava che Oltreoceano o Oltremanica ci fosse chissà che cosa, al di là dell’indubbia qualità superiore della musica, chissà quali stili di vita e modi di pensare. Qui da noi qualcuno sognava qualche chitarra, qualche scorribanda libertario-erotica (perché coi genitori che giravano da ‘ste parti era davvero dura… giuro), qualche ampliamento della percezione, oh le senti le vibrazioni? a mezzo spinello, acido e per i più sfortunati eroina, infatti alcuni amici ci hanno lasciato la pelle proprio in quegli anni, con addosso le magliette psichedeliche alla Joe Cocker, i jeans scampanati e i capelli lunghi… Capito tutto del movement e dei figli dei fiori neh? Qualcun* l’avremmo rivist* nei festival italiani, Re Nudo ne ha organizzati tanti… raggiungendo il massimo nel giugno del 1976 con quello del Parco Lambro a Milano. Io, se ci penso rido e piango ancora adesso, ma sarebbe bello se qualche altr* superstite volesse condividere la propria esperienza giovanile e proletaria di quel raduno. Peraltro, poi basta, nel 1978, eh sì perché in Italia l’importazione della cultura è un processo lungo e difficile, in provincia di Chieti a Vasto, fu organizzato il festival di Wastock.
Non ho parlato di tante e tanti che sono saliti su quel palco, ma parlerò presto di un’artista che, per motivi che lei stessa spiega all’inizio di questo video lì non si è esibita, perché la sua Woodstock è un brano che merita molti approfondimenti. Ascoltatela che poi parliamo di voci femminili… Grazie.
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