Paola Ciccioli (Milano): «2 agosto 1980. Maria e io lavoravamo a Cesenatico, nelle colonie del Comune di Reggio Emilia. Maria doveva partire per Bologna, quel giorno. Ed essere alla stazione proprio quando scoppiava la bomba. L’ho sempre ricordata in piedi davanti al televisore, impietrita, a seguire per ore e ore gli aggiornamenti sulla strage. Trauma, offesa e cicatrice della nostra generazione. Io quel giorno ero lì. Mi piacerebbe sapere come lo avete saputo voi».

Renato Guttuso, “Il sonno della ragione genera mostri” (2 agosto 1980), inchiostro di china, acquarello e acrilico su cartone intelato. Il maestro siciliano realizzò quest’opera appena saputo della strage e il settimanale “L’Espresso” la utilizzò pochi giorni dopo per la sua copertina. Il quadro è stato esposto fino al 12 gennaio 2020 a Villa Mirabello di Varese dove, a cura di Serena Contini, si è tenuta la mostra molto apprezzata “Renato Guttuso a Varese, opere dalla Fondazione Pellin” (foto di Paola Ciccioli)
Dal 9 gennaio 2020 c’è un quarto condannato per l’attentato neofascista che il 2 agosto 1980 uccise 85 persone e ne ferì altre 200 alla stazione di Bologna. La Corte di Assise del capoluogo emiliano ha infatti inflitto l’ergastolo a Gilberto Cavallini, ex esponente della formazione di estrema destra Nar (Nuclei armati rivoluzionari) che avrebbe concorso nell’eccidio con Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini (all’ergastolo i primi due, pena a trent’anni il terzo). Cavallini, che ha già scontato 37 anni per altri reati e aveva ottenuto la semilibertà, si è dichiarato innocente. Questa ferita della Storia italiana è stata una occasione di confronto nel Gruppo Facebook di Donne della realtà, vi proponiamo qui alcune testimonianze perché vogliamo sapere, ricordare ed esprimere vicinanza a una bella città. Un grazie a chi vorrà a aggiungersi a noi:
Clara Schiavoni (Osimo, Ancona): «In quei giorni avevo ospitato una collega di Bologna (noi unite dal gemellaggio delle nostre rispettive classi) e sua figlia di dieci anni. L’avevo convinta a non ripartire il 2 agosto per godere di qualche altro giorno di vacanza, di mare. Siamo rimaste impietrite ascoltando notizie dalla TV tutto il giorno e i giorni seguenti perché non l”ho fatta ripartire subito come voleva fare. Ogni volta che mi trovo alla stazione di Bologna ho un tuffo al cuore».
Katia Menchetti (Lodi): «Ero a casa con mio padre, stavamo aspettando che mia mamma, che era all’estero per lavoro, rientrasse. Per quasi un giorno abbiamo atteso una telefonata, Bologna punto di passaggio dal nord verso il sud, anche lei avrebbe potuto essere lì…. Poi chiamò e riprendemmo a respirare».
Giulia Berti Lenzi (Cosenza): «Ero al mare con i bambini e ne ho sentito parlare alla spiaggia. A casa alla Tv ho visto le immagini terribili e ho realizzato quello che era successo. Era quasi impossibile crederci! Siamo rimasti davanti allo schermo tanto tempo! Non siamo riusciti più a scherzare con gli amici, si parlava solo di questo. Purtroppo non è stata l’unica strage ad insanguinare il nostro sfortunato Paese!».
Maria Elena Sini (Sassari): «Ero ad Alghero nella nostra casa al mare con la famiglia. Diversamente dalle nostre abitudini il televisore era acceso perché era ospite da noi mia nonna paterna che non andava al mare e rimaneva a casa a leggere il giornale in terrazzo o a guardare la Tv. È stato un trauma per tutti, per me in particolare che in quegli anni, studiando ad Urbino, passavo spesso per la stazione di Bologna. Quella mattina non siamo andati al mare e abbiamo seguito le notizie che si rincorrevano nei vari Tg».
Annalena Manca (Roma): «Ero a Pattada (in Sardegna, ndr). Ascoltato tutto per radio. La sera, a casa di amici con mia madre, a vedere il telegiornale».
Giorgina Zucconi (Roma): «Ero al lavoro all’Ansa. L’abbiamo seguita ammutoliti ed increduli … quanta pena!».
Paola Tarasconi (Sassari): «Ho vivo il ricordo della stazione che vidi l’anno prima, e l’anno dopo, con quell’orologio fermo alle dieci e venticinque. Mi permetto di inserire questa testimonianza di Micol Tuzi.”Papà era tecnico di laboratorio all’ ospedale Sant’ Orsola. 39 anni fa era un sabato e lui faceva mattina. Al pomeriggio doveva venirmi a prendere dai nonni per portarmi alla piscina di Granarolo. Papà non arrivò puntuale come mi aveva promesso. Quando scoppiò la bomba, tutto il personale medico e paramedico fu mobilitato e mandato alla stazione. Entrato nell’atrio, la prima cosa che gli capitò fu scivolare sul sangue sparso in terra e si rese subito conto dell’orrore. Si rialzò e si mise a scavare con le mani. Trovò un bambino tedesco che aveva esattamente la mia età, ma non poté tirarlo fuori perché ferito ed incastrato dalla vita in giù sotto una trave. Gli misero una flebo e papà si sdraiò accanto a lui. Parlava bene tedesco, per cui gli parlò, lo consolò, gli diede da bere. Passò la notte a raccontargli le stesse fiabe che raccontava a me, di Ramesse il coccodrillo del Nilo e del suo furbo amico, il pesciolino Tutankamon. Venne il giorno e passò anche la mattina, papà era sempre lì nella polvere e nel sangue, accanto a quel cucciolo spaurito e sofferente, che avrei potuto essere io stessa, come lui mi disse piangendo anni dopo. A mezzogiorno il bimbo fu estratto dalle macerie, aveva le gambe rotte ma si salvò. Non si salvò la madre, che lo teneva in braccio e gli fece scudo col suo corpo, schiacciato dalla pesante trave. Papà mi portò in piscina domenica pomeriggio. Quando mi vide mi abbracciò con tutte le sue forze, poi, sul prato della piscina di Granarolo, quel pomeriggio dormì, aprendo gli occhi solo per sorridermi ogni tanto. Negli anni a venire, ancora, alcune notti si svegliava, sudato e angosciato, perché la coscienza, nel sonno, continuava a sbattergli davanti i fotogrammi di quell’incubo. Me lo confessò solo quando fui grande. Bologna 2 agosto 1980 è anche la storia dei soccorritori, del moto di spontanea solidarietà dei cittadini, che divennero gli angeli di quell’inferno. Fra loro mio padre, Claudio Tuzi“».
Michela Ferrario (Legnano): «Ero a Bogliasco con la mia famiglia al mare… La casualità vuole che mio fratello avesse preso lo stesso treno il giorno prima, sentendo la notizia al Tg. Lo guardammo sgomenti e allo stesso tempo con un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo».
Ivana Tamoni De Vos (Milano): «Appresi della strage dalla TV in casa, era un mattino luminoso d’estate, ero nel pieno vigore della gioventù, sposata da poco, in partenza per le tanto agognate ferie. Restai attonita, sconvolta, incapace di distaccarmi quasi tutto il giorno dai notiziari. Ricordo l’incredulità iniziale, dopo qualche anno di tregua dagli altri eccidi degli anni ’70. Succedeva ancora. Poi la rabbia impotente e un senso di colpa perché non si poteva gioire. Partivo per la Corsica, da Livorno. Di notte in autostrada immaginai fino a percepirlo il freddo gelido del dolore straziante che ancora saliva dalle macerie fumanti meno lontane. Lasciavo, anche se per poco, il mio paese in quello stato. Il lutto delle stragi dura tutta la vita».
Marco Tolomelli (Bologna): «È un ricordo freddo e superficiale: ricordo di aver udito un forte rumore e a poco più di un chilometro dalla stazione ci volle un po’ di tempo per capire cos’era successo davvero. Immensa stima per tutta quella generazione di persone che intervenne sul posto per salvare vite e per provare a elaborare la ferita alla città. Sono molti di quelli che ora trainano l’esperienza delle Cucine Popolari e di altre esperienze costruttrici di comunità e della città. I giovani stanno forse riprendendo con le ‘forze’ di oggi quella passione e forza etica».
Ida Monteleone (Catanzaro): «Ho appreso la notizia da radio, TV, quotidiani. È stato un tragico evento che mi ha indotta a cercare notizie da più fonti».
Gianni Bianchi (Milano): «L’ho saputo dalla diretta TV. Pochi anni dopo è scomparso anche il bravo cronista, del quale però non ricordo il nome».
Raffaelina Di Palma (Camerino): «Ero al mare con i miei bambini, abbiamo appreso la notizia dalla radio e poi a seguire le notizie durante la giornata. Il ricordo di quella emozione e il dolore per tante vittime innocenti è ancora molto vivo: anche perché a quell’attentato ne seguirono molti altri …».
Rita Veroli (Roma): «Paola cara, impossibile dimenticare. Facevo la commessa in un negozio che vendeva abiti da sposa in pieno centro a Macerata. Come ben tu sai mi dovevo mantenere agli studi. Serenella mia sorella lavorava già al PCI. Mi telefona piangendo e mi dice che alla stazione di Bologna è scoppiata una caldaia del gas. Mentre mi parla io accendo la radio e sento invece che era stata una bomba. Non so dirti a parole, Paola cara, l’emozione provata. Sono uscita dal negozio urlando che degli assassini fascisti avevano messo una bomba alla stazione di Bologna».
Francesca Rennis: «Un’ora, le 10:25 e quell’orologio rotto rimasto appeso al suo posto in un angolo della stazione. Come a guardia delle macerie lasciate dalla terribile esplosione. L’immagine più di un ricordo. Voleva dire quotidianità, attesa di un treno che trasportava le persone in luoghi dove avrebbero incontrato i famigliari, gli amici, il datore di lavoro e i colleghi, forse l’amore. Un’ora spezzata dalla violenza che attraverso le voci del cronista arrivava a sovrapporsi alle mie esperienze e al mio modo d’essere. Ero a Roma, allora. A casa con mia madre e ascoltavo la radio. Le lezioni universitarie erano concluse e nel pomeriggio lavoravo part time presso uno studio di analisi cliniche e di radiologia. Avevo il tempo per scrivere e ascoltare musica. Ricordo il silenzio nell’interruzione improvvisa delle trasmissioni musicali e l’audio che sembrava amplificato. Erano le 11.55. Davanti al mio sguardo passavano le immagini dell’ultima volta che ero stata alla stazione Termini. A Bologna non c’ero mai stata e cercavo di immaginare la situazione, lo sconvolgimento di chi aveva assistito o era scampato allo scoppio dell’ordigno non trovando più i propri cari. L’andirivieni frenetico, le voci dell’altoparlante che avvisavano l’arrivo e la partenza dei treni trasformati in emergenza e richieste d’aiuto. L’arrivo delle autoambulanze e dei mezzi di soccorso prendeva il posto di quel pullulare di persone che di solito si muove tra un binario e l’altro o cerca un luogo dove sostare per ripararsi dal caldo. E proprio queste persone subirono l’attacco. Ricordo il telegiornale. Le immagini in bianco e nero mi restituivano quella devastazione e tutta la crudeltà che l’avevano provocata ma anche il grande abbraccio solidale della città. E quell’orologio rimasto appeso come appesa era la speranza di ritrovare vive le persone sotterrate dalla deflagrazione. Un orologio ormai fermo anche sulla ricerca della verità. Eppure dopo circa un’ora era ormai chiara a tutti la matrice terrorista. Da quell’ora di quella calda giornata agostana avrei avuto una percezione diversa del mondo intorno a me. Avrei sentito la pulsante tensione nelle strade romane, avrei incontrato volti di persone come maschere che nascondevano chissà quale identità, avrei afferrato con sospetto ogni minimo rumore. Allora lavoravo in viale Margherita e per arrivarci dovevo prendere l’autobus e il tram. Trovavo sempre molta calca alle fermate. Gente che si muoveva indaffarata, cercando di non perdere tempo. Sempre in viaggio come nelle stazioni di treni. Non eravamo più al sicuro. Ogni luogo poteva essere una nuova stazione di Bologna, 2 agosto 1980, ore 10 e 25.
AGGIORNATO IL 6 FEBBRAIO 2020