di Marcello Jori
Il Centro internazionale di studi umanistici “Umberto Eco” di Bologna ha promosso un ciclo di seminari, Un lessico per le scienze umane, sulla comunicazione ambientale, medica, scientifica, sulla cultura digitale e l’etica dell’informazione. Gli incontri andranno avanti fino a maggio 2020 in collaborazione con cheFare, Agenzia di trasformazione culturale, e con PreTesti, Laboratorio studentesco di ricerca semiotica. E, a proposito di semiotica, proponiamo questo brano tratto dal romanzo Nonna Picassa in cui l’artista Marcello Jori, con evidenti richiami autobiografici, racconta il legame speciale tra un aspirante pittore e la nonna che lo surclassa in genialità e bravura. Tanto che il nipote, studente del Dams che non sa esattamente cosa sia la semiotica, ordisce ai suoi danni un imbroglio che alla fine lo costringerà a farsi carico del proprio talento. Eccolo al cospetto del semiologo diventato “leggenda”.

Umberto Eco e le dita incendiate dai fiammiferi durante una lezione di semiotica al Dams nella Bologna degli Anni 70. L’illustrazione è contenuta nel libro “Nonna Picassa”, romanzo del 2000 di Marcello Jori, da poco ristampato da Mondadori. L’illustrazione è dello stesso artista-autore e Paola Ciccioli l’ha fotografata per noi.
L’aula traboccava di studenti consapevoli della fortuna di occupare quelle porzioni di spazio. Giusto un tunnel era stato ricavato fra i corpi per il passaggio di quel grande punto interrogativo e ben due bidelli facevano una fatica tremenda a tenerlo aperto.
Da un momento all’altro sarebbe cominciata la prima lezione dell’anno di una disciplina del futuro: la semiotica. E io c’ero.
Più volte avevo cercato di mendicare una definizione commestibile della materia ma, fino a quel momento, fra gli iscritti avevo trovato solo molta passione e poca chiarezza.
Io, da sprovveduto del settore, insistevo a voler capire quale lavoro avrei potuto raccattare una volta in possesso di quel sapere segreto.
Non lo sapeva nessuno, buio pesto sul futuro.
Il professore, in compenso, aveva un nome facilissimo da ricordare, un nome che, se usato con intelligenza, era già di per sé un patrimonio. Si chiamava Eco. Lo sentivi una volta e ti restava in testa come un tarlo!
Dicevano che fosse un atleta del pensiero, uno che insegnando faceva fare le flessioni ai cervelli. Mi restò appena il tempo di chiedere un’ultima spiegazione a una ragazza. Rispose testualmente che quell’uomo studiava i segreti della lingua per fare successo nei settori della comunicazione di massa. Chi avesse capito qualcosa delle sue lezioni, avrebbe sfondato anche lui.
«Lasciate passare… Fate passare…», gridò un apripista. Un altro, parecchio congestionato, gli faceva da fanalino di coda e diceva invece «Fate largo», ma veniva schiacciato senza pietà.
Finalmente il fenomeno stava percorrendo il suo tragitto verso la cattedra e i respiri si fermarono. Mezzo minuto di apnea e poi i nasi ripresero a tirare aria! Faceva passettini corti ma velocissimi. Fumava come un treno da cartone animato, nuvole rotonde a ritmo serrato, tossicchiava, cof, cof. In un nanosecondo era già sotto la lavagna.
«Hai visto che faccia? …», sussurrai nell’orecchio della splendida culona.
«”Che faccia” cosa?».
«Non mi sembra questa gran faccia da speciale…».
«Mah… non deve mica essere bello un semiologo».
«Bello no, ma almeno un po’ strano…». Capelli corti, pettinati, barba bruna, occhiali anonimi, occhi castani. Se ne vedevano a milioni di uomini così. A vederlo da zitto, non pensavi “Questo è un genio“. Comunque se lo guardavi con attenzione, ti veniva un mezzo sospetto che fosse parecchio sveglio. Prima di tutto perché aveva i tipici occhi furbi delle lontre d’acqua. Non riuscivi mai a incontrarli per più di una frazione di istante. Ma anche i piedi, mai più di un attimo sulla medesima mattonella. Aveva un comportamento da batterio, da spermatozoo; più che da uomo, da microrganismo che si muove nei vetrini dei microscopi.
Tutti noi spettatori ci eravamo trasformati in gatti veri, con quella totale attenzione che solo i felini sanno dedicare a un topo in movimento. Le stesse identiche orecchie tese.
Ci salutò cortesemente con una bella erre moscia da erudito. Anche la voce era assolutamente normale, né da radio, né da cinema. Aspettavamo con fiducia la sua arma segreta.
Prese un gessetto e per cominciare ci fece accapponare la pelle con uno straziante lamento di gesso contro grafite.
Urlò come una bestia, quell’affarino.
«Lo sapevo!», disse tentando invano di spezzarlo. «Sempre questi maledetti cilindri duri e sottili!».
Pretendeva di romperlo con la sigaretta accesa in mano.
Non la mollava mai la cicca, piuttosto si scottava.
«Cosa bisogna fare per avere i gessi di una volta, quelli grossi a base quadrata?», chiese rivolto al bidello piantone sulla porta.
«Ve li ricordate quelli morbidi, da maestro, no?». Messaggio per noi.
La classe fece sì con una sola testa sincronizzata. Come dimenticare quei vecchi gessoni rassicuranti…
«Magari sporcavano di più, ma… hnn… hnn…», niente da fare.
«Adesso comprano tutti questi sottili che cigolano!», disse gettando sul tavolo il gessetto che finalmente si spezzò in due. «In tutto il mondo, eh… anche a Parigi, a Helsinki, a Sydney, anche a New York! Perfino alla Columbus University!».
Ma quanto viaggiava un semiologo?
Sapevamo tutti quanto fosse internazionale quell’uomo, ma fino a quel punto… Incredibile come riuscisse a darti il senso del villaggio globale. Gli bastava un gessetto per farti sognare.
Finalmente raccattò il pezzo più corto e scrisse sulla lavagna il titolo di un libro: I misteri di Parigi.
Poi si mise in bocca una sigaretta nuova di trinca e cominciò a frugare nelle tasche della giacca. Nulla.
Continuò a raspare nelle branchie dei pantaloni finché, vittorioso, estrasse una scatola di svedesi nuova di zecca, quelle da quaranta pezzi schierati in fila indiana. Disse una frase brillante sulla distrazione di Socrate e staccò un fiammifero dalla cappella rossa. Prese la rincorsa, lo strofinò contento e ci guardò in attesa della fiammella. E invece fra le mani gli esplose una fiammata di cannone. Tutti gli svedesi si accesero in un colpo solo e la mano scomparve in un fuoco da cartone animato. Gli piacevano proprio i cartoni, a lui. Ci aveva scritto anche un saggio… Il semiologo lanciò un urlo selvaggio che, mentre scagliava l’ordigno nell’aria, prese la forma di una parolaccia medievale. Nulla da fare, il falò non voleva staccarsi dalle sue dita. L’incendio durò un microsecondo, ma provocò effetti devastanti, una vera ustione di grado indefinibile!
L’arto apparve subito gonfio e carbonizzato. Non aveva più delle dita, ma cinque sigarette fumate.
Il professore sembrava venire meno, così due fedeli lo portarono via d’urgenza. Destinazione pronto soccorso.
Le nostre teste all’unisono girarono sui colli accompagnandolo all’uscita. Restammo come cani senza l’osso ad annusare l’aria bruciacchiata e puzzosa di bistecca alla brace. Poi, sfilando increduli davanti al micidiale mucchietto di cenere rimasto a terra, cominciammo a defluire verso l’uscita in fila composta.
Il fatto più incredibile fu che nessuno rise. Proprio non ci venne in mente. Avevamo piuttosto lo sguardo di chi stava pensando: un giorno tutto questo sarà leggenda!
(a cura di Paola Ciccioli)