«Alla popolazione del Vietnam unito. Avevo torto. Perdonatemi»

di Maria Elena Sini

In questo modellino i Cu Chi tunnels, la complessa ed estesissima rete sotterranea nella quale i Vietcong si rifugiavano e organizzavano le azioni di guerriglia contro l’esercito americano. È tra i luoghi della storia più visitati del mondo e Maria Elena Sini, che ci è stata da poco, ce ne parla in questo reportage (immagine da https://vietnamnews.vn/travel/travellers-notes/466589/cu-chi-tunnels-named-among-top-7-underground-destinations.html#QZwe0vy5UIydK4oE.97)

Dopo la visita alla reggia-mausoleo di Khai Dinh, il penultrimo imperatore del Vietnam, Maria Elena Sini ci guida nel Museo dei residuati bellici di Ho Chi Minh City e nel labirinto dei Cu Chi tunnels, la fortezza sotterranea dove fu organizzata la resistenza contro gli Stati Uniti.

Una visita in Vietnam, per una persona della mia generazione, cresciuta nell’epoca delle manifestazioni contro la guerra, nutrita da film come Il Cacciatore, Full Metal Jacket, Apocalypse Now, Platoon non può prescindere da un approfondimento sulla guerra che funestò questo paese per più di dieci anni. I vietnamiti da tempo hanno smesso di coltivare risentimento verso gli antichi nemici che sterminarono tre milioni di compatrioti.

La popolazione è concentrata sul presente e sul futuro più che sul passato forse perché il 50 per cento degli abitanti è nato 20 anni dopo la fine della guerra, e quelle che furono memorie dolorose sono spesso cimeli da mostrare ai turisti. I vietnamiti guardano avanti, non dimenticano ma non sono ancorati al passato, non ci sono trionfalismi sulla vittoria della “guerra americana”, come qui viene chiamata, forse perché il Vietnam nella sua storia ha dovuto fare i conti con tante invasioni, dai cinesi ai francesi e in fondo gli americani sono stati solo un nemico in più. Tuttavia il 1975, l’anno della fine della guerra, è considerato da tutti uno spartiacque fondamentale nella storia del Paese.

Durante il viaggio due luoghi in particolare hanno distolto la mia attenzione dalla bellezza della natura e dei monumenti, di cui il paese è ricco, e mi hanno fatto concentrare sui tragici eventi che hanno martoriato questo paese quarant’anni fa.

È difficile sintetizzare le vicende della Guerra del Vietnam le cui origini affondano nella difficile situazione che ha caratterizzato l’Indocina per secoli ma, giusto per inquadrare il contesto, ricordo che nel 1965 il Vietnam era diviso in due blocchi: a nord i comunisti appoggiati dall’Unione Sovietica e dalla Cina, a sud i filo-occidentali sostenuti dagli Usa. Il Vietnam si prestava così a diventare il teatro della guerra fredda. La causa scatenante della guerra fu un presunto attacco da parte dei filo-sovietici delle navi americane ormeggiate nel Golfo del Tonchino. Questo episodio diede al presidente americano Lyndon Johnson il pretesto per dare il via ad un intervento militare. Il primo bombardamento in Vietnam avvenne nel 1965 e chi pensava all’ennesima prova di forza contro Mosca dovette ben presto ricredersi: i Vietcong erano armati dall’Unione Sovietica, ben addestrati e capaci di organizzare  una guerriglia che permise loro di far fronte all’offensiva americana. Viceversa i soldati americani si trovarono in difficoltà sin dai primi anni e fecero ricorso a bombardamenti aerei e all’ irrorazione di sostanze esfolianti per stanare i Vietcong dalle foreste.

Nessun luogo commemora la lunga guerra con incisività e impatto emotivo come il Museo dei residuati bellici  a Ho Chi Minh City (ma Saigon, il vecchio nome della città, non è un tabù nemmeno per i locali). In questo luogo sono esposte fotografie agghiaccianti, alcune insignite con il Premio Pulitzer, che illustrano la brutalità degli americani durante la guerra. Tra queste le più sconvolgenti sono le immagini del massacro di My Lai, un villaggio nel quale in  quattro  ore, il 16 marzo 1968 un’unità militare statunitense  violentò, torturò e uccise 504 civili vietnamiti, la maggior parte dei quali erano donne, bambini e anziani. Il massacro si scatenò alimentato da comandanti mediocri, soldati frustrati e una polizia militare americana disposta a chiudere gli occhi.

In altre foto sono documentati gli effetti del fosforo bianco, del napalm e dell’agente arancio, un terribile diserbante a base di diossina che prolunga i suoi effetti negli anni provocando neoplasie e malformazioni. Quarant’anni dopo la fine della guerra gli ospedali sono ancora saturi di vietnamiti malformati o divorati da malattie genetiche provocate dal terribile “agente arancio”. Il napalm invece è un terribile composto chimico che forma un gel ampiamente infiammabile. È stata una spaventosa arma di morte in grado di rimbalzare come gomma aumentando il raggio d’azione dell’esplosione. La presenza del fosforo bianco poteva amplificare gli effetti ustionanti perché il composto si appiccicava al corpo raggiungendo temperature di 1200 gradi. Le foto che documentano gli effetti di queste armi sono state scattate da corrispondenti stranieri, alcuni dei quali sono morti durante il conflitto e trasmettono con evidenza il concetto che le guerre sono devastanti e che a subirne le conseguenze peggiori sono sempre i civili.

Uno scatto di Maria Elena Sini all’interno del Museo dei residuati bellici di Ho Chi Minh City. L’immagine mostra la foto simbolo della guerra del Vietnam che ritrae una bambina di 8 anni, Kim Phúc, mentre scappa nuda e in lacrime dopo l’attacco al napalm al villaggio di Trang Bang l’8 giugno 1972. Per questa foto Nick Ut dell’Associated Press vinse il Premio Pulitzer (https://www.ilpost.it/2015/10/26/vietnam-bambina-napalm-cura/)

Tra le immagini esposte c’è anche la famosissima foto simbolo della Guerra del Vietnam, quella di Kim Phúc, la  bambina nuda in fuga dai bombardamenti che provocò un’emozione terribile in tutto il mondo e contribuì a cambiare la sensibilità dell’opinione pubblica e a risvegliare le coscienze nei confronti della guerra. È interessante la parte del museo che mostra le diserzioni dei soldati americani dalla guerra e ampio spazio è dedicato alla documentazione dei contributi offerti dai veterani e delle donazioni al museo di semplici cittadini americani. Mi ha colpito una medaglia al valore donata al museo da un sergente dell’esercito americano con una targa in ottone che riporta la frase: «Alla popolazione del Vietnam Unito. Avevo torto. Perdonatemi».

Questo museo indubbiamente presenta il punto di vista della popolazione locale e documenta le atrocità compiute dagli americani, ma se si vuole capire come fu organizzata la resistenza della popolazione vietnamita e come fu combattuta la guerriglia che logorò l’esercito americano bisogna visitare la zona dei Cu Chi tunnels

Si tratta di un’area che ha rappresentato la roccaforte dei Vietcong, costituita da 200 chilometri di gallerie adibite a stazioni di pronto soccorso, cucine, sale riunioni, dormitori, nascondigli per le armi. Una rete di gallerie così ben nascosta che il 25° reggimento di fanteria americana installò inconsapevolmente la  sua base sopra le gallerie. I Vietcong apparivano all’improvviso, tendevano le imboscate, usavano macabri sistemi per uccidere e mutilare i nemici come trappole con canne di bambù infilzate nel fondo e cosparse di escrementi in modo tale che i nemici morivano sicuramente se i pali acuminati trafiggevano organi vitali, ma in ogni caso rischiavano la vita perché le ferite provocate dalle punte acuminate si infettavano. Dopo aver colpito sparivano nel nulla, si volatilizzavano attraverso un sistema di botole che conduceva ad una cittadella sotterranea ricca di entrate nascoste. Quando gli americani introdussero delle unità cinofile per stanare questi guerriglieri invisibili i Vietcong risposero con l’astuzia: rubarono saponette e deodoranti degli americani per strofinarsi pelle e abiti per confondere i cani.

Dopo aver visitato questo luogo ho detto alla guida locale che mi era più chiaro come avessero vinto la guerra e la sua lapidaria e saggia risposta è stata: «Nessuno ha vinto la guerra» . È vero la guerra fa emergere il lato peggiore degli uomini che da ogni parte commettono efferatezze per le quali può esserci solo biasimo al di là di ogni convinzione politica, i conflitti sono prima di tutto e soprattutto, una sconfitta dell’umanità. Per questo è importante la memoria, non dimenticare e non far dimenticare alle generazioni future significa costruire le condizioni per non perdere la capacità di indignarci davanti alle atrocità di tutti i conflitti che ogni giorno entrano nel salotto di casa nostra attraverso la televisione.

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