Volevo imparare una lingua e, scartate le altre seimila, ho scelto quella dei segni

di Giorgia Farace

Ho letto recentemente che nel mondo esistono circa 6.000 lingue. E che ne muore una ogni quattordici giorni. Ritengo che una lingua non sia solo una serie di parole e regole grammaticali, ma che racchiuda in sé una fondamentale parte della cultura di un popolo. Ci sono alcuni termini per cui non è possibile trovare un corrispettivo in due lingue diverse. Penso ad esempio alla parola siblings, che in inglese indica i fratelli, senza distinzione di genere. Nella nostra lingua non esiste nessun termine che la traduca, poiché la parola fratelli porta in sé una sfumatura maschile. Allora vado a scavare più a fondo cercandone l’etimologia e scopro che la radice sibb significa amore, amicizia, relazione e che la radice di una parola porta con sé la storia del suo utilizzo, la profondità del suo significato. E se per caso l’inglese, per assurdo, dovesse sparire, con esso perderemmo l’anima di molte parole che in altre lingue non esistono. È quanto accade, in realtà, molto più spesso di quanto noi possiamo pensare.

Imparare una lingua significa anche comprendere meglio la cultura in cui è nata e si è sviluppata, entrare nei suoi sotterranei e guardarne le fondamenta. Ed è forse per questo che mi sono sempre appassionata, nel mio piccolo, allo studio di nuovi idiomi. Ho iniziato dalle più semplici, quelle che vivono vicino a noi: inglese, francese, tedesco. Ho avuto la fortuna di studiare il latino, la culla della nostra civiltà; le prime leggi erano scritte in latino. E il loro significato più vero lo si capisce studiandole dal diritto romano.

Poi sono arrivata ad un bivio. Avrei voluto iniziare a studiare un’altra lingua, ma quale, tra le 6.000? Ho tentato con il russo, partendo come un bambino alle prime armi, dallo studio dell’alfabeto. Niente da fare, ho abbandonato piuttosto in fretta, la confusione che mi creavano lettere come la b che in russo si legge v, non mi ha permesso di andare molto oltre. Cinese? Giapponese? Arabo? Il dilemma della troppa scelta. Sentivo il bisogno di studiare qualcosa di diverso.

Un giorno mentre ero seduta fuori da un negozio, ho alzato lo sguardo e davanti a me una mamma e una figlia parlavano tra loro. Le ho osservate per un po’, ma niente. Non mi è riuscito di capire nulla. C’erano solo loro in quello spazio, l’una concentrata sull’espressione e i gesti dell’altra; non avrei saputo dire quale delle due fosse sorda, o muta. Parlavano utilizzando la lingua dei segni. Le guardavo, erano come in una bolla: niente di ciò che si muoveva attorno a loro pareva distrarle. E così ho deciso, come se mi avesse colpito una scossa elettrica.

Non appena tornata a casa ho cercato dove potessi iniziare un corso e mi sono iscritta. Da quel momento ho scoperto e letto, da qualsiasi fonte disponibile, notizie, commenti, articoli. La cultura dei sordi è inequivocabilmente unica, come ogni altra. Ma quello che mi ha colpito di più è che il semplice fatto di essere sordi non coincide con l’esserne parte. Ogni persona, sia essa sorda, udente, conosca la lingua dei segni o abbia la facoltà di parlare, si sente o meno parte di questa cultura.

Io ho avuto la fortuna di conoscerla, e passo passo di entrarvi sempre un po’ di più. Collaboro con una società (Società Silenziosa Ticinese dei Sordi – http://www.ssts-lugano.com/) che organizza eventi culturali, sportivi e ricreativi aperti a tutti. E che, cosa ancora più importante, non mi ha mai fatto sentire diversa.

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