Ci vediamo in piazza delle filandaie

Com’era mia madre quando lavorava in filanda? Come si vestiva quando affrontava quella salita ripida che portava allo stabilimento? Come si proteggeva dal freddo? Di cosa parlava con le sue amiche? Come raccoglieva i capelli? Quante volte l’hanno umiliata? E anche lei è stata insidiata dal padrone e aggredita dalla sua prepotenza? Mi porto dentro queste domande da che sono al mondo perché in casa mia la parola “filanda” è stata sempre pronunciata: da mia madre, da sua sorella, da nonna, dall’altra zia, da tante e tante donne del paese. Una parola ripetuta a testa alta nonostante l’infinita durezza del lavoro di filare la seta. Che ha dato però a mamma, nonna, zie e loro amiche la consapevolezza di aver fatto tanto e più degli uomini per campare onestamente.

Il brano che segue è tratto dal libro E lee la va in filanda. Donne e bambine al lavoro nei setifici cernuchesi tra ‘800 e ‘900, scritto da Serena Perego e pubblicato dal Comune di Cernusco sul Naviglio, cittadina vicina a Milano dove lunghe file di gelsi continuano a testimoniare quanto fosse importante l’industria serica in questo spicchio di Lombardia. Tanto che una delle sette ex filande è diventata un centro culturale e per accedervi bisogna percorrere via delle filerine. Ecco: quel che desidero è che anche a Urbisaglia, il paese marchigiano in cui sono nata e dove ho raccolto i ricordi delle “mie” filandaie, un angolo possa portare per sempre il nome di quelle bambine, ragazze, giovani madri costrette a tenere per ore e ore le mani nell’acqua bollente per estrarre il filo dal bozzolo. In ricordo di quelle operaie povere e splendenti di orgoglio che scacciavano il dolore pregando ma, soprattutto, cantando.  (Paola Ciccioli)

di Serena Perego*

Una cantata per scordare la fatica: i canti delle filandere

Ai tempi in cui la Gavazzi era in funzione, chi passava per via Bourdillon poteva sentire le operaie recitare il rosario e cantare, sovrapponendo le proprie voci al cigolare degli aspi, a sollievo della snervante fatica del lavoro.

La recita del rosario era una specie di rito quotidiano in molte filande, compresa la Gavazzi: dalle testimonianze raccolte sappiamo infatti che tutti i giorni, una volta la mattina e una la sera verso le cinque, sul finire della giornata lavorativa, una donna intonava il rosario e le altre la seguivano.

Anche il canto era diffuso all’interno delle filande; esso era, infatti, generalmente permesso, sempre che si trattasse, come a volte specificavano i regolamenti, di canzoni morali che non offendessero il buon costume. I padroni accettavano il canto perché, oltre a servire ad evitare il chiacchiericcio, era un elemento importante durante il lavoro, in quanto scandiva il ritmo delle varie attività, e, soprattutto, manteneva allegre le operaie e allentava la fatica e la tensione, rendendo, insomma, il lavoro più accettabile e predisponendo quindi le donne a lavorare meglio. Quest’ultimo aspetto non sfuggì certo al direttore della Gavazzi, Federico Carnovali: come ci ha infatti raccontato la signora Lucia Moioli «cantare era l’unica cosa che permettevano di fare; il direttore diceva che quando le donne cantavano erano felici e lavoravano di più».

Il canto è un elemento che spesso contraddistingue le filandaie, anche nelle canzoni popolari dedicate loro, come nel caso della Filandera (…), la cui protagonista ha voglia di cantare tutto il giorno, a dispetto della fatica del lavoro. Il fatto di cantare indica la capacità di molte di queste donne di essere allegre nonostante la vita povera e dura che conducevano, di cogliere la gioia nelle piccole cose e di farsi bastare poco per essere felici, proprio come sapevano fare le filerine cernuschesi citate nel libro di Nello Canducci Lessico cernuschese, che cantavano lungo il tragitto per andare a lavorare, durante il lavoro e al ritorno a casa, dove «davano sfogo a una grande contentezza ballando e saltando coi piedi scalzi nelle pozze d’acqua che la pioggia aveva formato nelle corti senza fognatura».

Ma vediamo nello specifico che tipi di canti si potevano ascoltare in filanda: oltre ai canti religiosi, come la pastorale Gesù bambino è nato, cantata in coro nel periodo natalizio, il repertorio comprendeva anche quelli popolari dialettali, alcuni ambientati proprio in filanda, e vari canti di moda allora, come le famose canzoni Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar e Se potessi avere mille lire al mese, che esprimevano i loro sogni di evasione e ricchezza. Dapprima solo alcune donne intonavano una canzone, poi man mano si lasciavano trascinare tutte nel canto e «venivano fuori di quei cori, altroché l’Antoniano».

È interessante soffermarsi sul genere di canti definiti “canti di filanda”, non solo perché venivano cantati all’interno delle filande, ma anche perché i loro testi parlano proprio delle filande stesse e delle donne che vi lavoravano. Si tratta di canzoncine popolari dialettali, diffuse in tutta la nostra regione, che testimoniano di un’epoca in cui il lavoro in filanda era diffuso e la figura della filandéra era ben nota, tanto da ispirare delle canzoni che hanno contribuito a imprimerla nell’immaginario collettivo dei posteri. Alcuni canti di filanda sono tristi e presentano in maniera negativa e pessimistica il lavoro in filanda e la vita delle filandaie, altri invece sono più allegri e meno pessimistici; nel complesso essi sottolineano le pesanti condizioni di lavoro delle filandére e il loro bisogno di guadagnare, ma anche il loro sentimento d’amore, amore presentato in molti casi in termini strettamente fisici, con espliciti riferimenti a rapporti sessuali anche di tipo prematrimoniale.

*”E lee la va in filanda. Donne e bambine al lavoro nei setifici cernuschesi tra ‘800 e ‘900″ di Serena Perego, “Quaderni cernuschesi”, iniziativa del gruppo Udi, Comune di Cernusco sul Naviglio, 2013.

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