di Paolo Valera*
Bisogna turarsi il naso. È un ambiente di case malfamate. Vi si vende di tutto. È una fogna, una pozzanghera. In certi momenti il vicolo delle Quaglie è un pisciatoio fino in fondo. Vi si guazza come intorno a un orinatoio. Se ne odora la peste. Sovente c’è una ressa di soldati che lascia supporre che ci siano nascoste moltitudini di vergini. Il chiasso che discende dalla casa a destra dà l’idea che gli uomini e le donne siano calcati in amplessi. Facce rosse, facce gramolate, facce bitorzolute, facce andate alla vergogna. I gradini non sono molti. Si sale e si discende con la sigaretta. Le finestre sono sporche, marrone, diffuse su muri più sporchi di loro. Nasi paonazzi
Di sopra, le stanze non adescano. Contengono la mobilia andata in malora o divani che non sono ancora sprofondati nella stoffa sbiadita e si vedono sulle pareti quadri di due o tre lire ciascuno e oleografie che lasciano credere a certa distanza che siano dei capilavori. La ruffiana non lascia irrompere. Essa si contenta di pochi per volta. Nessuno si guarda in faccia passando. Alcuni scompaiono senza andare nel salotto. Il salotto sovente è di gente che fa flanella. È mossa dalle guardie regie, se vi giungono.
– In alto le mani – gridava il commissario dei costumi, per farli frugare, cercare in fondo alle tasche, interrogare se avessero avuto delle armi indosso. Gli occhi polizieschi frugavano anche loro. Portavano alla superfice coloro che avevano in tasca la morte civile o sulle guance i particolari degli habitués che vanno di tanto in tanto a S. Fedele o al cellulare.
Le stanzacce non hanno eleganza. Un letto, un catino con salvietta, un attaccapanni, un baule, un tappetino al piede del letto. Non c’è sempre. Il resto è della donna. Forcelle, qualche nastro, pettini, cartoline illustrate, saponette, cipria, profumi di infima qualità, sigarette.
Una volta nella stanza mi si è riassunta la loro carriera. Tutto è finito. Le donne di questi ambienti hanno percorso la loro carriera. Voglio dire che non c’è più duttilità di corpo in loro. Le loro carni sembrano semi-appassite. La loro età non conta. La donna dei lupanari arriva presto. Tutte discendono precipitosamente. Non pensano più al lusso. Il loro lusso è una spruzzata di colori volgari à ramage su una stoffa direi quasi paesana. La moda è una vestaglia alla Geisha o alla giapponese o in una veste dei nostri giorni che arriva loro alle ginocchia. Quelle in vestaglie si tengono infagottate gran parte di esse su dal ventre. Vita uggiosa. Non bisogna avere fantasia per continuarla. È una vita che non si sa in che cosa consista. È migliore quella delle vergini vendute ai grandi signori. Esse se non altro diffondono sciami di luce dalla loro vita di carne in fiamme. Sostate una mattina con loro. Si alzano tardi e svogliate. Sono ancora nei trambusti notturni. Si sentono ancora il cervello opaco. Se lo sbrigliano con una sigaretta. Bevono un caffè come si sia. Non hanno pensieri per il di fuori. La loro lettura fa ridere. È cianfrusaglia o robaglia. La Carolina Invernizio è la loro venditrice di romanzi. Al sabato si fanno comperare un po’ di razzapaglia giornalistica. La «Sigaretta», l’«Amore Illustrato», il «Cestino da Viaggio», il «Tramwai» e roba simile. Nessuno scrive loro. Sono come separate dalla civiltà. Non è che il mantenuto le rammenti. Esse sono le reiette della prostituzione. Se non c’è ressa di uomini consultano le carte o il libro dei sogni. Esse sono molto inquiete su questi soggetti. Anelano a prevedere o indovinare la loro giornata. Avranno molti uomini? Il loro mantenuto le tradisce o da loro la scopola? Ecco come s’arrabattano la giornata. Un’altra sigaretta e si contentano di metter ei piedi in terra senza pensare alle casottiste di alto bordo. Per loro non c’è il manicure, il pedicure il coiffeur, la sarta, la lavoratrice in biancheria, il calzolaio, la modista e via. Persone inutili per le persone di via delle Quaglie. È un’esistenza vuota quella delle Quaglie. A trent’anni la loro dégringolade è incominciata. A quaranta se vi giungono arrivano al sifilicomio o finiscono dove hanno finito le loro compagne: aprendo il cancello o vuotando il catino. Meglio essere vendute giovani per delle centinaia di lire che perire sulla strada ad aspettare la loro volta di arrivare al cancello o al catino!
Sono donne che hanno bisogno di essere qualcuno. È capitato qualche volta che abbiano potuto metter sul libretto della Banca o della Posta dei risparmi. Rare volte.
Molte di loro sono di ignoti. Il magnaccia o il rocchettée riesce sovente a tirarle giù dal casotto o a metterle in circolazione per proprio conto. Una volta nel casino di una o due lire non si tirano su più.
Non si sale più. Si è come stati su troppi mercati. Puzzano di acqua e sapone. Sovente si ungono i capelli e se li lisciano dappertutto. Alcune, le più ricche di capelli, se non ricorrono alle trecce, se li arruffano, fermandoli con pettini tartarugati di qualche spesa. Poco seno. Pare che vadano al vicolo delle Quaglie quando sono già fruste. Spesso lo stomaco pare un assito. Tutta la loro poesia si riduce a un fiore nei capelli o al petto. Le donne senza uomini o che fanno pochi uomini sono mandate via. Le respinte dal vicolo delle Quaglie fanno furore in S. Carpoforo o in stretta Calusca, ultima pozzanghera professionale.
La guerra ha favorito molti. I tenenti postriboli hanno fatto più denari che non si è immaginato in quel tempo. Mandando la loro mercanzia molto bassa nelle retrovie per la truppa, il governo li pagava bene. Simile mercanzia è ritornata da noi a far quattrini.
Se si esce dalle Quaglie e si passa nel vicolo del Bottonuto c’è roba scadente. È roba invecchiata. Sono donne tenute su con tutti gli uncini, con tutti gli spilli, con qualche vezzo di false perle. Sono stanze che dànno sul vicolo. Brutte. Più malconciate di quelle delle Quaglie. Sono donne giunte ai tramonti. Di sera hanno più clienti. La luce delle lampade maschera i loro volti emaciati e dalla pelle avvizzita o solcata di tatuaggi esce anche la malandrina. C’è gente che preferisce il buio. Ritornando alla piazzetta e filando verso via Larga, c’è il 19, un lupanare che fa agli altri da appendice. Non ha la stessa nascosità. Ha però l’entrata delle case di prostituzione. Una maschera. Comprese le stanze mobiliate in giro, la maggioranza è rappresentata dai personaggi postribolari.
Dall’altra parte, al margine di via Larga, il cancro torreggia. Lo si vede dappertutto. Il moncone di via è dappertutto. Le vecchie case si elevano e pare si uniscano, voltando per precipitare l’una con l’altra. Passando si sente tutta l’impurità dell’ambiente. Ci si soffoca. Il sudiciume traspira dalle muraglie. Tutto è abbominevole. La gente che vi vive è fracida come le vecchie abitazioni del luogo. Tutti chiamano aiuto. La demolizione sarebbe un salvagente. Tanto più che il male è passato da anni nella via Larga, dove di sera è percorsa dalle prostitute come una nube di cavallette. È una zona pestilenziale. Tutti fanno pancia, direttamente o indirettamente, sulla prostituzione.
La prostituzione è ridiventata librettata. Cosa che non dà fastidio a nessuno. Ormai si vive della prostituzione. Tutte quelle donnacce mantengono allegramente l’ambiente; i padroni di casa, gli affittaletti, i concessionari di spazî a ore, i caffè, i fornai, le osterie, i restaurants. È una via calcata di questa melma, dalla quale escono tanfi soffocatorî.
*Si intitola “Il bubbone slabbrato del Bottonuto” ed tratto da Milano sconosciuta del giornalista scapigliato Paolo Valera, libro del 1879 scoperto grazie a Maria Bartocci. L’artista e storica milanese mercoledì 14 novembre, alle 15,30, presenterà nella gloriosa Università Popolare in via Terraggio il suo spettacolo “Milano racconta”, un giro documentatissimo e affascinante tra quartieri malfamati abbattuti (come il Bottonuto), leggende, video e canzoni. Ben contenti di collaborare con lei, Luca Bartolommei suonerà e canterà antiche ballate milanesi, mentre io – Paola Ciccioli (curatrice di questo post) – leggerò alcuni brani scelti da Maria.
Il romanzo, il realismo e l’Ottocento, pare ci sia proprio tutto. Giusi
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