di Piero Feliciotti
Ci stiamo mettendo in cerchio attorno all’aròla, per usare il vocabolario di Giuseppina Pieragostini, e fare festa al suo “Il Vanto e la Gallanza. Il paese dei contadini raccontato nella lingua dell’origine” (Pentàgora) di cui la scrittrice parlerà a Roma sabato 20 gennaio, alle ore 18, nella Chiesa di Sant’Eligio dei Ferrari. Accolte dal Centro Studi Marche e con la partecipazione dell’Associazione Donne della realtà, racconteranno l’importanza di questo libro Marta Fattori, professoressa emerita di filosofia, e Letizia Carducci, esperta di “contadinanza”. Ma prima di cedere loro la parola, con grandissimo piacere facciamo un passo indietro e “riascoltiamo” la bellissima presentazione fatta a Macerata dallo psicoanalista Piero Feliciotti, membro del Forum italiano del Campo Lacaniano.

Mario Giacomelli, “Paesaggio”, 1953/1963 (http://www.mariogiacomelli.it/)
È l’epopea dei Pieragostini, “li Sgattù ”, secondo il soprannome di famiglia. Mingu de Sgattò e La Mercanda sua moglie, stavano a li Pippieti con i loro dieci figli. Una famiglia di mezzadri di cui si racconta la vita durissima di fame e de tribulà, tanto precaria che potevano, da un momento all’altro e a piena discrezione del padrone, ricevere “la disdetta” ed essere cacciati dal podere.
È anche la storia dell’affrancamento da quella condizione di Pippinetta, l’ultima figlia, che, quando inizia il tramonto della mezzadria, “derazza” grazie all’amore della scuola, dei libri e della scrittura – tutte cose che in apparenza non avevano posto in quella comunità legata all’utile immediato, a una concretezza rude e scettica, contraria a voli metafisici. Dico in apparenza perché in famiglia avevano tutti il gusto un po’ fanfarone di raccontare storie favolose.
Questo libro vuole dare voce agli ultimi del mondo, il cui nome non è scritto da nessuna parte, perché nei documenti ufficiali ci sono solo i nomi e le ragioni di chi aveva i mezzi, il tempo e il potere per scrivere la storia. La mezzadria non ha avuto una letteratura, una poesia, un’epica. Ebbene, incatenati al puro bisogno materiale, i mezzadri si sono ripresi l’anima che gli veniva tolta, attraverso l’invenzione del dialetto. Giuseppina Pieragostini va a trovare nel dialetto i pensieri, i sentimenti, le ragioni, la rabbia e la gioia, tutto quello che della vita di queste persone è stato semplicemente dimenticato. Usando la sua chiave di lettura filologica e antropologica, compie un’operazione complessa ma la scrive in maniera semplice, chiara e divertente.
Prima di tutto il dialetto non è la nostra preistoria, una dimensione fuori dal tempo di cui magari si ha nostalgia – il che ne fa una lingua morta, buona tutt’al più per il folklore, per la scenetta comica a teatro, o la macchietta di costume in versi. Come fa a evitare questo scoglio? Ebbene, non prende il dialetto come valore assoluto, ma relativo alla struttura sociale e ai rapporti di potere all’interno dei quali aveva una funzione. Si parla sempre all’interno di una struttura di potere e il dialetto serviva a plasmarla, a modificarla per ottenere degli effetti, dei benefici. Dialektos è la trama lessicale che, come la rete di protezione dell’acrobata, regola l’incontro/scontro con l’altro senza arrivare alla rottura. Perché non si poteva arrivare alla rottura; lo squilibrio di potere a favore dei padroni era immane e spietato; non c’era alcun modo di metterlo in discussione, né i contadini l’avrebbero mai potuto o voluto sovvertire. Ecco allora che l’altra faccia della vita mezzadrile, l’interlocutore di questo rapporto era lu Patrò.
Il capolavoro del dialetto è saperci fare col linguaggio in una relazione di potere così sbilanciata, un misto di tatto e invenzione, di furbizia e ruffianeria, di lamento e di spavalderia in un continuo misurarsi con la vita: lo ccimendasse. L’ironia, il doppio senso, l’iperbole che ancora sono la cifra “a dispetto” della nostra parlata. Il gusto della teatralità, il vanto e la gallanza ostentati per nascondere la miseria e la disperazione e una ribellione che non si potevano nemmeno immaginare.
La vita è l’arte de lo ccimendasse dove ciò che importa è figurare. E se vi ricordate che Leopardi scrive “io nel pensier mi fingo”, sapete quanto di creativo ci sia in questo saper inventare figure. Ma figurare ha anche un valore fisico che ora vedremo.
Questo libro dunque è un romanzo, è il recupero di quello che si diceva, è uno studio attento del linguaggio che fonda l’identità contadina. Ma il libro è anche e soprattutto il racconto e lo studio di come si parlava. È la storia dei gesti, degli atteggiamenti, dello stile dei personaggi; insomma dei modi di essere delle persone che a quel dialetto davano corpo, a seconda di come portavano la parola, di come la sostenevano e ci giocavano nel cimento quotidiano. Perché parlare è un’azione sociale. Dunque nel dialetto, a saperlo leggere, c’è anche la storia dei corpi dei mezzadri. I quali escono da queste pagine vivi, in carne e sangue, con la loro disperata vitalità. Fate attenzione a quanta importanza il libro dà ai gesti e alla corporeità dei personaggi. Scoprirete un mondo che, per quanto strano possa sembrare, è vicino a quello di Leopardi, dove produrre le figure del linguaggio parte sempre da un’impressione sensibile e fisica, da unsoché di concreto.
Lo stile del dialetto è nella forza delle persone che lo parlavano, nel ritmo e nell’intonazione con cui davano anima alle parole nella quotidiana lotta per sopravvivere. Qui c’è qualcosa di specifico perché bisogna aver sentito qualche volta almeno quelle gutturali, averle pronunciate e deve averti risuonato il corpo per sapere una volta per sempre di che si tratta. Dice Giuseppina Pieragostini: lo ccimendasse era un’arte che nessuno ti insegnava, te la passavano direttamente con il latte. Nel dialetto il corpo si fa figura e il gesto riempie lo spazio tra significante e significato. Il che è la radice stessa della poesia.
La parola del dialetto, dice Pirandello, è la cosa stessa, è tutt’uno con l’azione e non lascia spazio a mediazioni tra pensiero e corpo. Per cui “Sgattò” non è una metafora, non vuol dire uomo veloce come una lepre, per esempio. Sgattò è un modo di essere di fronte alla vita, è l’anima contadina furba, birba, svelta che come un funambolo del racconto si conquista il diritto e la gioia di vivere. Vai poi a sapere se in quelle scandafavole ci fosse più condimento o pietanza. Poco importa, perché nella vita figurare è tutto.
Caro Feliciotti, sono felice (…) di poterti ringraziare pubblicamente. Quando si scrive la prima aspettativa è che qualcuno capisca cosa volevi dire senza avere neanche il coraggio di dirlo. La seconda, rara e preziosa, è quando trovi un lettore che trova connessioni, figure, che non eri consapevole di averci messo.Tu sei un lettore della seconda specie. Sono stata fortunata. Giusi
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Anche noi.
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Bene! Andate in scena il 20, se non ricordo male. Mi fa piacere ricordare quelle mie parole e anche che tu le abbia apprezzate ancora una volta. Grazie del tuo affetto e un abbraccio anche a Paola.
Arrivato by mail da Piero Feliciotti
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E io abbraccio te, caro Piero, mai avrei immaginato di ritrovarti a li Pippieti, tra gli Sgattù… Grazie per queste parole e per l’amore che hai messo nello scriverle. Mi auguro di rivederti e di riascoltare la tua voce.
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A questo punto, mi sento come seduta alla tavola di un grande cuoco, senza aver assaggiato il suo piatto, già così ben presentato. Ne sono tanto attirata e lo pregusto, anche per il suo genere, che mi sembra umanamente e letterariamente importante. Grazie fin d’ora, desidero riparlarne.
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Ciao Paola e grazie delle tue parole di apprezzamento. È perché l’affetto non si perde mai che ci si cerca in qualche modo; e che la vita ci offre le occasioni per ritrovarci quando non c’è lo aspettiamo. Siete state brave, Giusi e tu. Quanto all’amore, è stato a prima vista. Un abbraccio grande, Piero
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Caro Piero, lascio sul tavolo (lo ricordo di legno) della cucina di casa tua quello stesso mazzetto di viole che Pippinetta voleva portare alla sua Maestra. Con il mio grazie.
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