di Eliana Ribes

Adina Malpiedi, a sinistra, il giorno del matrimonio delle sue figlie gemelle Rosina e Marina, al braccio – rispettivamente – del padre Virginio e dello zio Umberto. Questa bellissima foto, che Eliana Ribes è andata a scovare nell’archivio della Biblioteca di Urbisaglia (Macerata), accompagna un racconto particolarmente intenso e caro anche alla coordinatrice del blog, Paola Ciccioli
C’è una zia nel cuore di tutte noi? Una donna dolce e forte, protettiva e sapiente, che ci ha “salvato” dalle burrasche dell’infanzia ed educato sentimentalmente ad affrontare la vita? Eliana Ribes ci fa conoscere la sua (la nostra) zia Adina Malpiedi, nata nel 1915 e scomparsa nel 2006, dopo 91 anni di bene sparso a piene mani. Grazie. Questa è la prima parte di un ritratto con tante sfumature.
Oramai, con la mente, sono sempre alla ricerca di “donne della realtà”. Spero di aver fatto anche questa volta la scelta giusta.
Quando ero piccola, tanti anni fa, vivevo a stretto contatto con una zia che si chiamava Adina. Abitavamo nella stessa casa, divisa in modo tale che lei e la sua famiglia, in affitto, ne occupasse la terza parte e la mia famiglia il resto. Con questa zia la parentela non era stretta, anzi molto lontana, ma questo non aveva alcuna importanza perché la vicinanza sapeva crearla lei.
Era la madre di due ragazze gemelle, Marina e Rosina, più grandi di me di undici anni, le pupille dei suoi occhi, ma zia sapeva voler bene non solo ai figli e nipoti propri, ma anche a quelli degli altri. Era una donna “di cuore” e di grande affetto, con cui circondava tutte le persone a lei care. A me faceva sempre tanti complimenti che mi incoraggiavano e qualche volta mi consolavano. Quando combinavo qualche marachella veniva sempre in mio soccorso, per tirarmi fuori dai guai.
Avevo fatto da pochi giorni la prima comunione, in seconda elementare, e il giorno della festa del “Sacro Cuore” dovevo andare in paese per la processione. Mamma mi aveva preparato con il vestito più bello, calzini e scarpe bianche che aveva passato con l’apposita tintura, e mi aveva agghindata con catenina, braccialetto, anellino e orecchini, oggetti d’oro appena ricevuti in regalo e che ancora non avevo perso per strada, giocando. Aveva piovuto e il terreno che confinava con casa nostra era tutto bagnato; nell’attesa di partire sentii, irresistibile, il richiamo delle lumache e così, per vedere se stavano uscendo dal loro guscio, attraversai il campo per raggiungere la siepe e il fosso che lo separavano dalla strada.
Inutile dire come divennero quelle povere scarpe candide e quanto potessero pesare con la terra che si era attaccata sotto la suola. Zia Adina mi aveva visto per prima dalla finestra e cercò di rimediare al rimediabile. Venne a tirarmi fuori da quelle “sabbie mobili”, mi consolò, mi fece sedere su una sedia, mi tolse le scarpe e cercò di pulirle, ma invano. Mamma, che fu avvertita in un secondo momento, di fronte al mio sguardo afflitto e alle lacrime, più che arrabbiarsi fu presa da tanto sconforto. Non tentò neppure di ripassarle con il bianco perché erano bagnate e si era fatto tardi. Così rimasi in casa con nonna che alle funzioni religiose non partecipava mai.
Anche in un’altra occasione cercò di tirarmi fuori dai guai. Facevo la quarta elementare quando ebbi la bella pensata di non ritornare a casa dopo la fine delle lezioni per andare a raccogliere le viole dall’altra parte del paese, a quattro chilometri di distanza da casa mia, con una compagna di scuola (se c’era da raccogliere qualcosa nei campi non sapevo resistere, che si trattasse di fiori, ghiande, noci, castagne o lumache!).
Aspettai nel vicolo che la mia compagna pranzasse e chiedesse il permesso ai genitori, dopodiché andammo a raccogliere le viole. Verso le quattro, quattro e mezza, me ne tornai felice a casa, con il mazzetto di fiori in mano. Quando imboccai la “Gabbetta”, l’ultimo tratto di strada in discesa, vidi che in fondo c’era zia Adina ad aspettarmi. Aveva capito che nella mia famiglia c’era una certa tensione e un po’ di preoccupazione, e così si era premurata di venirmi incontro per avvertirmi e fare da scudo alle meritate botte che mamma minacciava di darmi.
«Lida mia perdonala, ha detto che non lo farà più!», così zia pregava mamma che cercava di afferrarmi: in poco tempo la scena da seria divenne comica e l’avventura finì lì, con le viole che nel parapiglia si sparsero tutte per terra. A me le punizioni e “le botte” non piacevano per niente e per non buscarle, senza dignità, mi mettevo in ginocchio, chiedevo perdono e facevo promesse, anche con una certa convinzione. Poi, però, scordavo le buone intenzioni e mi avventuravo spesso in imprese più grandi di me, anche se il fine era buono ed ero mossa da generosità.
Nelle feste più importanti della mia famiglia: battesimi, comunioni e cresime, zia ha sempre aiutato mamma nei preparativi e nel pranzo finale che si faceva in casa con i parenti più stretti. Non solo forniva l’aiuto materiale, ma incoraggiava e teneva su il morale. Per lei tutto era buono e bello.
Era con zia Adina che durante le vacanze estive andavo al fiume Fiastra dove lei lavava i panni o “curava il panno” per il corredo delle figlie. Era questo un piacevolissimo luogo di incontro per le donne del posto, che si scambiavano confidenze e si tenevano al corrente di tutte le novità: fidanzamenti, matrimoni, gravidanze, nascite, ma anche liti nelle famiglie e tra vicini, malattie, debiti e piccoli scandali. Ritornavamo a casa, io tutta soddisfatta per quello che avevo fatto, visto e sentito, cercando di non perdere neppure una battuta, lei stanca e con la roccia sopra la testa per appoggiare la tavola di legno con sopra tutti i panni bagnati e strizzati. Un bell’esercizio di equilibrio!
I – Continua
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Scrive Eliana Ribes su Facebook: «Questa foto, nel 1962, è stata scattata lungo la statatale 78, che conduce anche a Sarnano, per intenderci. Due spose con tutto l’accompagno potevano posare senza pericolo in mezzo alla strada…».
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