di Franz Kafka*

Dettaglio della copertina di “Lettera al padre” di Franz Kafka (Garzanti 2016): «È come se uno fosse prigioniero e avesse non solo l’intenzione di evadere, cosa forse possibile, ma anche, e contemporaneamente, l’idea di trasformare la prigione in un castello»
Così termina la mia vita con te, per come essa è stata sino a ora, e queste sono le prospettive per il futuro in essa racchiusa.
Se tu ora considerassi, nel loro insieme, le motivazioni della paura che provo nei tuoi confronti, potresti rispondere: «Tu sostieni che io mi renda le cose facili attribuendo solo a te le colpe del nostro rapporto, io invece credo che, nonostante lo sforzo apparente, tu renda la questione se non più difficile, di sicuro molto più vantaggiosa per te. Prima rifiuti anche tu ogni colpa e responsabilità, e in questo il nostro modo di procedere è identico. Ma poi, mentre io attribuisco tutta la colpa a te, cosa di cui sono veramente convinto, ci tieni ad essere allo stesso tempo ”superintelligente” e “superaffettuoso” e assolvere anche me da ogni colpa. Naturalmente quest’ultimo tentativo ti riesce solo in apparenza (del resto non chiedi di più), e fra le righe emerge, nonostante tutti i tuoi discorsi sul carattere e sulla natura, sulla contrapposizione e sul senso d’impotenza, che in realtà l’aggressore non sono stato io e che tutto ciò che tu hai fatto era soltanto un modo per difenderti. Con la tua insincerità avresti già ottenuto abbastanza, perché hai dimostrato tre cose: primo, che tu non hai colpa; secondo, che io sono colpevole e terzo che, grazie alla tua generosità, sei disposto non solo a perdonarmi, ma anche, più o meno, a dimostrare, e persino a voler credere tu stesso che anch’io, seppure contro ogni evidenza, non ho colpe. Questo ti potrebbe bastare ma non ti basta ancora. Ti sei messo in testa, infatti, di voler vivere del tutto alle mie spalle. Ammetto che noi lottiamo l’uno contro l’altro, ma ci sono due modi di lottare. C’è il combattimento cavalleresco, in cui si misurano le forze di avversari autonomi, ognuno combatte per sé, perde per sé, vince per sé. E c’è la lotta del parassita, che non soltanto punge, ma al tempo stesso, per mantenersi in vita, succhia il sangue. Quest’ultimo è il vero soldato di professione, e questo sei tu. Sei incapace di vivere: ma per poterti comodamente adagiare in questa incapacità, senza preoccupazioni e senza muoverti rimproveri, vuoi dimostrare che ti ho tolto ogni capacità di vivere e me la sono messa in tasca. Cosa t’importa ora se sei incapace di vivere, tanto la responsabilità è mia; tu, invece, ti metti sdraiato bello comodo e ti fai trascinare d me, fisicamente e spiritualmente, attraverso l’esistenza. Un esempio: quando, ultimamente, pensavi di sposarti, al tempo stesso, lo ammetti in questa lettera, non lo volevi affatto, ma per non fare troppa fatica volevi che fossi io ad aiutarti a non sposarti, vietandoti il matrimonio a causa della “vergogna” che da quell’unione ne sarebbe venuta al mio nome. Ma un’idea del genere non mi passò neppure per la testa. Anzitutto, qui come in tutti gli altri casi, non volevo essere “di ostacolo alla tua felicità”, e in secondo luogo non vorrei mai che mio figlio potesse muovermi un simile rimprovero. Ma a cosa mi è servito lo sforzo che ho fatto su me stesso per lasciarti libero di decidere se sposarti? A niente. La mia opposizione al matrimonio non lo avrebbe impedito, anzi, sarebbe stato per te un ulteriore stimolo a sposare quella ragazza, perché il “tentativo di fuga”, come tu lo definisci, sarebbe stato perfetto. E la mia autorizzazione alle nozze non ha impedito i tuoi rimproveri, giacché tu dimostri che in ogni caso sono io il colpevole del tuo mancato matrimonio. In fondo però, in questo e in tutto il resto, non hai fatto altro che dimostrare, a mio avviso, che tutti i miei rimproveri erano giustificati e che ne mancava uno, ancor più fondato, e cioè quello relativo alla tua insincerità, al tuo servilismo, al tuo parassitismo. Se non sbaglio, anche in questa lettera emerge la tua natura di parassita nei miei confronti».
A tutto ciò rispondo innanzitutto che questa replica, che in parte può anche essere rivolta contro di te, non nasce da te, ma per l’appunto da me. Neppure la tua diffidenza verso gli altri è profonda quanto quella che io nutro per me stesso e alla quale tu mi hai educato. Non nego perciò una certa legittimità alla replica, che del resto reca un nuovo contributo alla caratterizzazione del nostro rapporto. Nella realtà, naturalmente, le cose non possono armonizzarsi tra loro come le prove nella mia lettera, la vita è qualcosa di più che un gioco di pazienza; ma con la correzione apportata da questa replica, una correzione che non posso né voglio sviluppare nei dettagli, si raggiunge, a parer mio, qualcosa di così vicino alla verità, da poterci rasserenare un po’ e renderci più facile il vivere e il morire.

© iStock Photos by Getty Images
*Così termina la fondamentale Lettera al padre di Franz Kafka (Garzanti 2016), qui tradotta da Nicoletta Giacon che, sul “Corriere della sera”, ha ricevuto il plauso dello scrittore Claudio Magris per aver reso «splendidamente l’ambiguità di questo capolavoro ibrido», una «odissea nei meandri oscuri e dolorosi della condizione umana» che parla non a un indistinto lettore bensì a «un destinatario preciso, il signor Hermann Kafka, il padre».
Il brano che presentiamo è stato scelto da Luca Bartolommei. Scrive Nicoletta Giacon: «in chiusura, ricorrendo a uno spiazzante artificio letterario, la narrazione cede la parola direttamente al padre, in un’ipotetica risposta al figlio».
Grazie all’ufficio stampa Garzanti.