di Sergio Angelo Picchioni

Perché la “Città ideale”? Perché vogliamo fare un omaggio al Centro Studi Marche che affida la propria immagine a questo capolavoro custodito nel Palazzo Ducale di Urbino. E perché il Cesma il 30 marzo 2017 ci ha ospitati nella sua sede di via dei Coronari a Roma per la presentazione del libro “È come vivere ancora” di Mariagrazia Sinibaldi, curato e pubblicato dall’Associazione Donne della realtà
Sarei voluto intervenire ma la mia età non me lo concede, ragion per cui ho raccolto le mie impressioni su un paio di fogli. Presentare un libro non è per me un’esperienza nuova, tanti avendone già recensiti, lodati o a volte anche criticati, sempre però in campo storico, filologico o anche archeologico. Ora dover presentare una raccolta di memorie e di sensazioni redatte in forma letteraria è un impegno nuovo, che mi ha lasciato per un certo tempo perplesso e indeciso.
Indeciso se accettare il gentile e gradito invito che mi è venuto da Paola Ciccioli, intelligente e coraggiosa giornalista, oltre ad essere grande amica della nostra cara scrittrice, Mariagrazia Sinibaldi, e a cui si deve l’iniziativa e la realizzazione di questa pubblicazione. Ma come ben si vede ho poi accettato.
Dirò subito che di questo piccolo libro, intitolato “È come vivere ancora” (auspicio che tutti noi vorremmo fosse possibile attuare) ebbene di questo libro parlerò bene. E per rassicurarvi, come avviene nei processi americani (a giudicare almeno dal cinema di Hollywood), giurerò di non avere nessun legame di parentela con la scrittrice, la nostra Mariagrazia, appunto. Le mie osservazioni dovranno esser quindi intese come assolutamente imparziali e dettate solo da giudizi di tipo estetico.
Ciò che però mi lega a Mariagrazia, e lo confesso, è un grande senso di amicizia, un’amicizia ormai di lunga data, e che spero duri ancora per molto.
È come vivere ancora, dicevo. E sembra proprio che Mariagrazia rappresenti la realizzazione di questo ambito sogno. Una giovane, come appare, o diciamo pure usando una sua espressione, una giovane antica. E anche di antica saggezza nell’affrontare una vita non sempre facile, madre felice di tre figli con ricca progenie, che sono oggi la sua vita. Oltre alla scrittura, s’intende. Donna semplice da una parte, sofisticata dall’altra.
Il tutto si riflette coerentemente nelle sue pagine. Lo scrivere con semplicità e immediatezza è infatti uno degli elementi che la caratterizza, insieme ad uno stile particolare che mi ricorda il più noto Joyce, il famoso autore dell’Ulisse.
Un dato che ritroviamo simile quando Mariagrazia descrive la sua famiglia, con tutti i risvolti, e gli aspetti dai più seri ai più scherzosi, dai più tristi ai più commoventi. Temi certo non insoliti alla letteratura in generale. Ma che Mariagrazia ci propone con un suo stile diretto, immediato, rendendoci così partecipi dei suoi pensieri e dei suoi soprappensieri. E il suo stile è quello che con un termine pittorico definirei divisionismo.
Nelle sue pagine sembra quasi di guardare un paesaggio di Seurat o del nostro Segantini, il cui colore non è che una sequenza infinita di punti, che rendono ora lo scintillio delle acque, ora sembrano echeggiare il frusciare delle foglie. Questo appunto si riscontra nella sua prosa. Gli ambienti, gli atti, le azioni, le cose, tutti gli oggetti che cadono sotto la sua osservazione sono dettagliatamente esaminati, esplorati, suddivisi, e infine commentati. Le stesse persone sembrano essere scandagliate come cari oggetti.
Prendiamo ad esempio una semplice donnina del sud, emigrata per necessità lavorativa nel nord, e che ci riporta, così come descritta, a tutta una realtà umana e nostrana. Dice il testo «I suoi capelli grigi sono tagliati dritti dritti con un non troppo magistrale colpo di forbici e sono trattenuti su un lato da una semplice molletta, la sua bocca contiene due mezze file di denti, così a incastro; e l’espressione del suo viso, malgrado chiacchieri tanto e con tanta “competenza”, è ferma, immobile, come di chi per tutta la vita ha lavorato e faticato tanto. No, non ha avuto tempo, la mia donnina (nota Mariagrazia), per modulare la voce, per ammiccare, per sorridere maliziosamente (p.31 s.).
Come si fa, alla fine di questa minuziosa analisi, di questo affettuoso ritratto, a non amare quella semplice donnina? Mariagrazia, ed è un ulteriore pregio del suo pensiero narrativo, vive con le creature che descrive, e le fa vivere a sua volta nel lettore. Non è facile coinvolgere un lettore. Bisogna scrivere, come una volta ho detto forse troppo audacemente, bisogna scrivere sensualmente. E lei ci riesce.
Infatti ecco un altro esempio. È difficile, come riesce a fare Mariagrazia, trasformare un banale picnic in Canada in un avvenimento goliardicamente entusiasmante. Ma ecco che una bella pagina dedicata appunto a quel fortunato (credo ancora oggi fortunato) paese descrive un normale picnic nel pieno (come dice il testo) di una meravigliosa esplosione di fiori colorati… in piena aria aperta, per il respiro della pelle al contatto del sole e del vento… ovunque ci sia un po’ di spazio… nei boschi, nei parchi pubblici… con lunghi tavoli e lunghe panche di solido legno. Con rubinetti con acqua corrente e barbecue in muratura, e prati con la rete per la palla a volo o porte per una bella partita di calcetto. Per grandi e piccini… il tutto mantenuto in ottimo stato ed efficienza. E non cito il resto di pag. 49, con una idilliaca descrizione di un ménage famigliare in Canada. Insomma, è lecito chiedersi alla fine della lettura, che ci stiamo a fare ancora qui in Italia? Come si sarebbe potuto descrivere meglio, e diciamo più sensitivamente uno stato di benessere sociale che per noi resta solo un sogno?
Ma, a parte questi due esempi, debbo dire che tre sono i temi fondamentali che ritornano, come fedeli compagni, nei ricordi di Mariagrazia. I famigliari di un tempo e quelli presenti, la natia Roma, e non da ultimo il Marocco, paese dei suoi viaggi ed esperienze.
I famigliari ci sono tutti, quelli antichi, scomparsi e rimpianti, e i tanti viventi, numerosi, fra figli nipoti e nipotine, tutti presenti nei racconti della scrittrice, e tutti descritti nei loro momenti più belli e significativi: in un caso è il Natale, con le candeline di vera cera, «quelle che si accendono col fuoco». Cito questa particolare nota, direi quasi questa pennellata, per osservare che potrebbe anche sembrare inutile e sovrabbondante. Ma no, non è così, è invece un preciso e incisivo accenno, una specie di flash, che scopre la nostalgia per un tempo diverso, un tempo genuino, e fatto di cose genuine.
Una nostalgia che aleggia (e non potrebbe essere altrimenti) in tutto il libro, così come quando si accompagna al ricordo della grande casa romana, la casa avita, così descritta: «L’appartamento di via dell’Ara Coeli, al terzo piano di un bel palazzo secentesco… con soffitti (a cassettoni) alti più di tre metri, senza ascensore, 107 gradini da salire…». E poi una lunga descrizione quasi topografica di mattonelle, fili elettrici e valvole in ceramica, con un filetto di rame che esce dal quadro elettrico, e così via. Una vera e propria dissezione. Ma alla fine, finisce per amare Coeli, è fatale. In effetti è un ricordo, forse amaro, di cui lei però parla solo con affetto e senza apparente dolore. Da vera signora. Che è poi l’ennesima ed elegante caratteristica di questa scrittrice: la signorilità. Non per nulla il sottotitolo del libro dettato sicuramente dall’affetto di Paola Ciccioli, definisce Mariagrazia “La vera signora del blog”. Il blog che si intitola “Donne della realtà” di cui Paola è anima e mente.
Ed eccole le nipoti, una in Canada. L’altra in Australia, con la divertente e minuziosa descrizione di un menu festaiolo, e la funambolesca e divertente ricerca e spedizione delle necessarie cibarie verso quel lontano paese. Pagina divertente, perché non è certo lo humor che manca a Mariagrazia. Il tutto come dicevo descritto nei più minimi, e apparentemente insignificanti, particolari. Proprio come faceva Joyce.
E veniamo alla città di Roma. Roma è rappresentata sempre come una città ormai scomparsa e rimpianta. Il che non potrebbe essere diversamente, soprattutto per chi, ormai ridotto a un’età estrema, l’ha vissuta un tempo, un tempo oggi inimmaginabile. Soprattutto per i giovani.
E anch’essa, come un oggetto, è esaminata nei suoi particolari aspetti: negozi e botteghe, vie e viuzze, palazzi e ruderi antichi. Oltre a saper ricomporre il triste periodo della guerra in un resoconto di una festa di Natale piena di imprevisti ma anche di allegrezza. (p.58 s). Ma sempre alla fine Ottimismo, ottimismo, proclama con esaltazione Mariagrazia.
Significativo il ricordo del quartiere che conosciamo col nome di Ghetto. Ecco rivivere i vecchi negozi di una volta, la latteria, il bancone di marmo, le bottiglie di vetro bianche per il latte contenuto, e il coperchio di alluminio: per aprirle bisognava bucarlo nel centro e poi tirare su. Il pezzetto di alluminio veniva buttato nella spazzatura, …le bottiglie venivano restituite al prossimo acquisto di latte. Lo ricordo bene, il tappo si apriva facendo forza col pollice.
Particolari che potrebbero sembrare, soprattutto ai giovani di oggi, in parte inventati e che invece fanno accapponare letteralmente la pelle a chi ha vissuto quei tempi e quelle usanze oggi scomparse.
E poi il Ghetto continua con i suoi sampietrini oggi sconnessi, le vecchie osterie, le pizzicherie, il vinaio, e le viuzze con i portoncini una volta sgangherati. Che stretta al cuore ricordare la Roma di un tempo, e quanto è consolante vederla se non altro ancora rivivere in queste belle pagine.
Ma come ultimo esempio mi è caro citare la menzione dei due anni trascorsi in Marocco, l’altro tema caro a Mariagrazia, con il resoconto del rapporto avuto con due “collaboratori domestici”, Abdel-Qader ben Abdallah, e sua moglie Fatima. (Scrivo, nei miei appunti qader con una q, e non una k, perché credo che il verbo qadara indichi forza vitale e non fango, confusione, come il verbo kadara). Ma questo è insignificante (è solo un minuscolo appunto filologico. Un piccolo appunto lo debbo pur fare, e Mariagrazia me lo perdonerà). I due collaboratori, dunque, accolti in casa di Marigrazia e del marito, curati, istruiti, resi in una parola esseri civili, costretti poi a tornare con un sotterfugio in Marocco, e infine emigrati in Francia, incontrano di nuovo Mariagrazia, e pieni di riconoscenza e affetto, non trovano altro che ripetere “madame, madame”, e così esprimere la loro gratitudine. Questo istintivo e spontaneo moto di un animo semplice, lo confesso, mi ha commosso. E anche la scrittrice ricordando questo cordiale exploit confessa, in fondo, di essersi commossa. Una pagina questa che potrebbe essere affissa come proclama di lungimiranza e di fratellanza nelle nostre strade, oggi, nel clima di dibattuto scetticismo che ci confronta con i tanti (forse anche troppi) emigranti, rifugiati e non.
Volendo esprimere dunque un giudizio su questo piccolo ma significativo libro, che in altra sede ho definito per la sua immediata semplicità un “libro in pantofole”, posso solo dire che le sue pagine sono come semplice ma salutare aria respirata a pieni polmoni. Una fresca e consolatrice aria, fatta alitare con tanta e tale sensibilità e gusto estetico che mi ha riportato con la mente, a me sempre in sintonia con qualche legame letterario, ai bei versi del Leopardi: Primavera dintorno brilla nell’aria, e per li campi esulta, sì ch’a mirarla, intenerisce il core. Credo quindi infine di poter definire questo libro un vero e proprio inno alla primavera.
Voi potreste ben dire che mi sono lasciato trascinare dall’affetto. Ebbene, leggete il libro, ammesso che non lo abbiate già fatto, e fatemelo sapere.
AGGIORNATO IL 7 APRILE 2017