Un diario tra le mani, la responsabilità della memoria nel cuore

di Angela Giannitrapani*

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Angela Giannitrapani fotografata la scorsa estate a Marsala dove ha emozionato la città natale raccontando la genesi del suo “Quando cadrà la neve a Yol. Prigioniero in India” (Tra le righe libri, 2016)

Che fare quando si trova una lettera, un biglietto, il diario di una persona che non vive più? Si va a sbirciare, naturalmente. Poi si rilegge con più attenzione e si annodano o si spezzano dei fili. E sorge il problema di cosa farne: far finta di niente e tenerlo per sé, passarlo ad altri, riseppellirlo là dove lo si è trovato?
A me è capitato. Con i diari di guerra e prigionia di mio padre. Li ha trovati mia sorella e non ha esitato a mostrarmeli. Li abbiamo letti: lei quasi subito, con grande determinazione. Io ho impiegato dieci anni prima di cominciare a leggerli.

Sfogliavo la copertina, scorrevo la prima pagina ed ero costretta ad interrompere sotto un flusso di emozioni incontenibili. Poi, finalmente, è giunto il momento e ho potuto posare occhi, mente e cuore sulle righe dalla calligrafia familiare. Quando ho chiuso il terzo e ultimo quaderno, li ho rigirati tutti e tre tra le mani: ho osservato le copertine di cartone rigido, la marca e il distributore di articoli di cancelleria di Bangalore, in India, stampigliato in basso in lingua inglese. Con la lente di ingrandimento ho scoperto, in una scritta sbiadita a matita, il numero di matricola del prigioniero di guerra, il numero del campo, l’ala, la baracca di appartenenza. Quei dettagli, più del contenuto, mi hanno dato la misura della lontananza nel tempo e nel luogo; dell’autenticità delle pagine scritte in un campo di prigionia inglese alle falde dell’Himalaya, durante la seconda guerra mondiale. Mi perdevo in quelli e altri dettagli per prendere tempo con me stessa e con un padre, poco più che ventenne, a me sconosciuto. Mentre ancora digerivo lentamente il contenuto dei suoi diari, ricordavo ciò che della sua prigionia avevo sentito durante la mia infanzia. Erano episodi che mi avevano accompagnato negli anni e che raccontavano di coltivazioni di piselli, lattuga, pomidoro, di cibo ammuffito, dei rododendri dell’Himalaya, di camminate lungo il torrente, di come lavavano e stendevano il bucato in spazi ristretti e di qualche concertino di musica. Dietro il filo spinato, sì, ma una bambina, raccontati così, li vede come avventurosi e curiosi. In quel modo erano rimasti impigliati nella mia esistenza fino a quel momento.

Angela Giannitrapani ha scritto “Quando cadrà la neve a Yol – Prigioniero in India” ispirandosi ai diari del padre recluso a Yol in un campo di prigionia inglese alle falde dell’Himalaya, durante la seconda guerra mondiale. Questo suo libro ha vinto il secondo premio del Centro studi e ricerche “Mario Pannunzio” di Torino (http://www.centropannunzio.it/)

D’un tratto, però, dopo aver letto la drammatica cronaca della vita di prigionia nella quale quegli episodi conosciuti quasi scomparivano, è apparso un padre pietoso e protettivo. Un padre che, come ho scoperto in seguito, al pari di molti padri ha voluto preservare la propria prole dall’orrore, pur senza omettere di raccontare di guerra e di prigionia. Intravedevo la generosità di una generazione che ha pagato per gli errori della storia e si è impegnata a ricostruire l’Italia. E allora, che farne di quelle pagine? Si dice che fa onore dare spazio alla memoria e siamo spesso spinti a raccontare dei nostri cari, accompagnati dal rammarico di farlo quando non ci sono più. Ma questa sembra essere una regola di vita. La discrezione, il pudore e le forti emozioni di chi ha vissuto in prima persona esperienze dolorose o felici a volte suggeriscono il silenzio nell’arco dell’esistenza. E dobbiamo rispettarlo. Quando le persone non ci sono più sopravviene la memoria di chi resta e il bisogno di dire di loro. Ma non è così scontato. Bisogna soppesare bene e prendersi la responsabilità di parlare o tacere. Io ho scelto di parlare, anzi di scrivere. E devo ammettere che la spinta è stata forte e decisa. I dubbi, i conflitti, i timori sono giunti quando ho finito e ho dovuto decidere se rendere pubblico il mio scritto.
Ecco, lì ho dovuto ripercorrere l’esistenza del padre conosciuto e del giovane sconosciuto, rinchiuso dietro ai reticolati. Ho dovuto indagare ancora e ancora sul nostro rapporto, fatto di dialettica, discussioni e affetto. Mille volte gli ho chiesto il permesso per ogni parola, ogni sillaba, ogni virgola scritta da me. Gli ho chiesto un cenno, un controllo, un segno trascendentale. Silenzio. Sempre silenzio. Finché, dopo molto tempo, mi è giunta la sua voce chiara e netta: responsabilità, è tua responsabilità. Non c’è stata altra soluzione che prendermi da sola la responsabilità di riseppellirlo dove lo avevo trovato o renderlo pubblico. E poiché il suo diario, oltre che a lui stesso, ormai apparteneva a me e mia sorella, non mi è rimasto che chiedere il permesso a lei. Me lo ha dato con infinita generosità e fiducia. E siccome non volevo che quel giovane soldato camminasse da solo sotto gli occhi di lettrici e lettori sconosciuti, ho custodito e accompagnato il suo diario dentro al mio racconto. Un racconto in cui ho immaginato quel soldato che, vecchio e libero, ripercorre insieme a un compagno le orme che aveva lasciato laggiù, a settemila chilometri dalla sua terra, alle falde dell’Himalaya.

*Il post è stato tradotto in inglese dall’autrice.

AGGIORNATO IL 29 NOVEMBRE 2017

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