«La dittatura ci vietava di scherzare perché ridere era considerato immorale»

di Tefta Matmuja*

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Tefta Matmuja fotografata a Ischia dal compagno Christian. Il racconto che vi proponiamo è una lezione viva sulla storia recente ed è stato presentato da Tefta al workshop internazionale “Immigrazione al femminile e diritto all’educazione”, che si è tenuto a Roma presso il Centro di servizio per il volontariato nel Lazio (tutte le immagini provengono da Facebook)

Parlare del diritto delle donne allo studio, mi porta indietro nel tempo, nel lontano 1985, in Albania, dove vigeva il regime comunista.

Il primo settembre, avevo solo 6 anni, mi ricordo che l’emozione ed il timore, nascosti sotto il grembiule color nero, con il collare bianco e la bandana rossa, in fila in mezzo alle stesse emozioni di tanti che, come me, aspettavano la fine del giuramento recitato dalla migliore studentessa delle classi superiori, dedicato al tanto amato Enver Hoxha, al Partito, alla patria. Tutto questo solo per entrare nel palazzo con tante finestre per prendere un posto nel banco di legno, e poi conoscere il proprio compagno, e la maestra, la nostra seconda mamma. Lei sarebbe stata la nostra guida nel mondo infinito dei libri e del palazzo con tante finestre. Sono iniziati così i miei lunghi anni nel mondo della scuola.

Ogni giorno alle 7,30 della mattina dovevamo trovarci nel cortile della scuola per prepararci ad entrare in classe. Tutti sempre in fila per due entravamo: prima i più piccoli e poi via via i più grandi fino agli studenti delle ultime classi. Un ritardo comportava una punizione come dover fare una corsa girando la scuola per tre volte. La vivevamo tutti come umiliazione. Anzi, tutti, con i loro sguardi, ti facevano sentire colpevole ed umiliata allo stesso tempo.

Entrati in classe, si preparava il libro della prima lezione, e non appena bussava alla porta la maestra, ci alzavamo in piedi per darle il buongiorno in coro tutti quanti.

E passavano così le quattro ore ogni giorno, da lunedì a sabato.

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Hersi Matmuja sfiora con le labbra il pancione della zia Tefta. «Un bacio per te piccola meravigliosa creatura!!!», così ha scritto la cantante albanese accanto alla foto del proprio profilo Fb poco prima della nascita di Zoe, la bimba di Tefta e Christian nata il 27 agosto

Per i primi quattro anni avevo solo una maestra che insegnava tutte le materie, e si occupava di tutti noi. Aveva un compito difficile in quanto ci doveva dare le basi per il nostro futuro, e tutto ciò che faceva contribuiva ed anzi aveva lo scopo di formare il nostro carattere.

A lei era affidato il più grande compito, di introdurci nel mondo della cultura, nel rispetto tra di noi, di insegnarci a scrivere, leggere, imparare a ragionare e di individuare i talenti.

Per svolgere al meglio il suo lavoro a volte ricorreva a dure punizioni, persino ad usare le mani se era necessario. Aveva l’approvazione dei nostri genitori per fare tutto quello che fosse necessario per il nostro bene.

Mi ricordo i suoi occhi verdi ed il suo accento del Sud quando si rivolgeva a mamma durante la riunione con i genitori e le diceva che doveva essere fiera di me perché ero una brava allieva, e mamma in risposta le diceva che doveva esigere di più da me, di non accontentarsi.

L’Albania in quegli anni era sotto il regime comunista, di cui era capo Enver Hoxha, guidata dalle teorie di Marx e Lenin. Un regime dove tutto era sotto controllo, niente passava inosservato ai responsabili del Partito.

I libri scritti da scrittori di talento venivano ispezionati dal “comitato predisposto” dal Partito, per evitare che al popolo fossero trasmessi dei messaggi puramente capitalistici, come la libertà di esprimersi, di vivere, di essere, sull’amore e la profondità del pensiero. Quando ero piccola impiccarono uno scrittore perché si sentì padrone di scrivere sull’amore, e lo lasciarono notte e giorno in piazza, appeso, in modo che tutti noi potessimo vederlo e non ci permettessimo mai di fare quel grande errore: scrivere poesie d’amore.

Da quel momento iniziai ad osservare il mondo degli adulti. Vedevo mia sorella che leggeva di nascosto libri e poesie di Pablo Neruda ed altri scrittori che erano severamente vietati. Vedevo quei libri girare tra i giovani. Lei leggeva nel corridoio, così la luce non poteva riflettere nel cortile del palazzo, in modo tale che nessuno potesse accorgersi della sua grave infrazione alle leggi imposte dal Partito e potesse fare la spia contro di lei.

Le mie sorelle erano giovani e dovevano tenere alta la moralità, in quanto le donne del Partito avevano quel compito, avevano quell’obbligo.

I maschi erano più liberi di vivere anche con qualche comportamento non conforme ma spesso più tollerato.

Così decisi di studiare molto e di apprendere il più possibile, approfondire senza farmi notare da nessuno.

Passarono anni, e vidi come il duro studio veniva premiato con i corsi pomeridiani, lezioni di canto, strumenti musicali, pittura, teatro, sport e con l’onore di uscire davanti a tutti nel cortile dove tutte le classi erano divise in fila per due ed occupare il posto della migliore studentessa e poter così recitare lo stesso giuramento ascoltato anni prima, con l’orgoglio di chi ha reso fieri di sé la famiglia, le maestre e i propri cari.

L’ultimo giorno del quarto anno festeggiammo la fine del percorso con la nostra prima maestra gioendo, ma con la tristezza e la paura nascosta in ognuno di noi.

Fui fortunata, mi ritrovai nella stessa classe con la maggior parte dei miei compagni al quinto anno.

Conobbi la maestra responsabile della classe e le altre maestre. La maggior parte di loro erano dure, rigide e pretendevano la perfezione da ognuno di noi, come il regime insegnava ed imponeva. Erano più di una le maestre da accontentare e ciascuna con le sue esigenze e le sue fissazioni, dalla postura dritta quando si sta seduti, al modo di rivolgersi a lei, a come ci si deve vestire, mangiare, comportarsi in pubblico ed in privato. Tutto doveva essere a norma e come il regime imponeva.

I libri di studio erano preventivamente approvati e distribuiti dallo Stato, in quantità ridotte di stampa, e per questo ognuno di noi doveva provvedere ad anticipare la richiesta dei testi che gli occorrevano. Ricordo con quanta ansia aspettavo il mio nome quando distribuivano i libri, con la paura che magari si fossero scordati di me.

Verso la fine dell’ottavo anno un giorno entrò la maestra di letteratura e ci disse di strappare le pagine del libro dove si parla di Ismail Kadare. Ci ordinò di fare questo e ciascuno di noi lo fece. Allora lo feci anch’io. Non capivo, ma ubbidii.

Kadare è lo scrittore che aveva guidato il popolo albanese nella sua crescita letteraria, e dovevamo così di punto in bianco cancellarlo, per il semplice fatto che aveva deciso di andare via dall’Albania, chiedendo asilo politico in Francia.

Le cose in Albania stavano cambiando, sentii da un discorso tra maestre, poco prima delle vacanze estive.

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«A spasso per Tirana»

Al ritorno dalle vacanze estive nel 1993 trovai il palazzo con tanti vetri distrutti. Le finestre senza più i vetri, come occhi ciechi che mi fissavano. Il buio dietro a quelle aperture che un tempo riflettevano il sole con i loro vetri lucidi. Tutto era diverso, non solo quel palazzo. Mancava anche il mio albero sotto la mia casa, era stato affidato a me il compito di curarlo e nutrirlo. Piansi e mi arrabbiai molto con chi aveva tagliato il mio albero.

La tristezza si impadronì di me, non c’era più niente di quello che avevo lasciato, di quello che ora era solo un ricordo.

La dittatura comunista era definitivamente caduta. Adesso, girava voce e si proclamava che la democrazia sarebbe stata finalmente la nostra nuova ideologia, la libertà di essere, di vivere, di esprimersi e di muoversi. Era tutto così bello che tutti ci sentivamo spaventati.

In quell’anno, il 1993, iniziai il liceo. Tutto era nuovo, compagni nuovi, professori e professoresse nuove, anche l’aria che respiravo sembrava nuova.

C’era caos. Nessuno capiva nulla e si viveva giorno per giorno cercando di dare forma alle giornate, nell’attesa di un futuro che ancora non arrivava.

Le classi anche del liceo erano distrutte, si faceva lezione nella classe del laboratorio di biologia e chimica, dove erano rimasti solo i banconi con le maioliche. Tutto il resto erano macerie.

La disciplina continuava a persistere anche se intorno era rimasto ben poco di quello che si era costruito e curato con molta dedizione. Ci si attaccava alla disciplina per poter avere un ordine al quale rimanere attaccati nell’attesa di un momento migliore, nella speranza di un momento migliore.

Si iniziava a respirare più libertà nel pensare, nel modo di essere, di vestirsi, di sognare, amare, vivere. Ed era bello quanto inaspettato, e per certi versi sconosciuto.

Provai l’emozione più naturale dell’età adolescenziale che le mie sorelle maggiori non avevano mai provato, che non avevano mai neanche pensato di poter provare: la ribellione contro le cose che non mi piacevano e che non volevo. Sperimentavo vari modi di vestirsi che le generazioni precedenti non osavano neanche pensare. Era il mio modo di iniziare a pensare con la mia testa.

Vedevo come le donne per la prima volta potevano togliere la maschera della rigidità e camminare più sciolte, ridere e scherzare senza dover pensare che la gente potesse condannarle per qualche strana concezione dell’immoralità.

Io notai questo, soprattutto, nella professoressa di ginnastica che andò dal direttore per avere il permesso di portare le ragazze della nostra classe per la prima volta a ballare in discoteca.

Non lo avevo mai immaginato possibile nella mia vita prima di allora.

Si viveva tutto con tanto entusiasmo, come quando si respira l’aria dopo esserne stati senza troppo a lungo. Con voracità, con la paura che ci venga a mancare di nuovo da un momento all’altro.

Lo studio continuò ad avere la stessa importanza di prima. Si svolgevano varie Olimpiadi per tutte le materie. E tutti ci sentivamo spronati a gareggiare o almeno a fare una buona figura.

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«E poi gli anni passano 🙂 e nonostante questo il tuo fratello maggiore pensa sempre che sei piccola e ti fa la torta»

Si pubblicavano i libri sull’amore, sulla vita espressa nella sua forma più libera. Si iniziavano a trovare libri scritti da giovani donne che avevano storie ed emozioni da raccontare. Fui molto colpita da questo, perché durante la dittatura tutti gli scrittori conosciuti erano uomini.

Come anche nelle Olimpiadi di matematica, fisica, fecero partecipare anche le donne.

Ad un tratto tutto era diventato possibile, anche attraversare i confini. Guardare la Tv in orari illimitati, non solo negli orari decisi dal Partito, e si poteva vedere anche quella estera. Si poteva leggere tutto quello che si voleva.

Era un sogno raggiunto e la gente era felice e nello stesso tempo stupita ed impaurita da tutte queste novità.

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«Gentian Lulanaj: albanian painter»

I primi tre anni del liceo, furono molto belli e molto impegnativi. Le interrogazioni erano più complesse, gli esami erano più complessi, i professori molto esigenti.

La scuola era diventata più liberale da tanti punti di vista, i professori non imponevano più la loro personalità, l’opinione negativa sull’immoralità andava via via diminuendo.

Vidi le mie sorelle che potevano vestirsi e comportarsi come non avevano mai fatto prima e mamma molto più tollerante di prima.

Era un mondo favoloso quello che vivevo, ero circondata da tanti eventi emozionanti. Era la gioia della libertà tanto sognata di nascosto che si respirava in ognuno di noi. La tanto attesa democrazia.

(Prima parte – continua)

*Questo emozionante racconto di Tefta Matmuja è nel cassetto da sei anni. Le sue parole hanno aspettato il momento giusto prima di venire alla luce e il momento giusto è arrivato ora perché il 27 agosto la bella, tenace, coraggiosa e sensibilissima Tefta ha messo al mondo la piccola Zoe Ayelen. Lei, figlia di una donna umile e forte, è a sua volta madre. Zoe sarà fiera di mamma Tefta e del suo caparbio cammino verso il proprio sogno. Auguri infiniti. (Paola Ciccioli)

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