«Ho ripreso a danzare, la fatica mi insegna ad ascoltare e proteggere la mia vera passione»

di Giorgia Farace

Ma che bella… Questa fotografia, prodezze della tecnologia, ha fatto un bel giro prima di arrivare al nostro blog. Giorgia Farace, l’autrice del post, è riuscita a mandarcela da un bellissimo e silenzioso luogo di vacanza. Qui ha otto anni e sta facendo riscaldamento prima del saggio al Palazzo dei Congressi di Lugano, insieme con le altre allieve della scuola di Monica Caroni

Ancora non sapevo scrivere il mio nome la prima volta che, con gli occhi sinceri e spalancati, innocenti ed entusiasti di bambina, ho detto a mia mamma di voler fare “la farfallina”. Stavo guardando, in uno dei rari momenti concessi, la televisione, e un programma proponeva un balletto. Indicando lo schermo, puntavo il dito a quelle ballerine che parevano libellule, nei loro leggeri e vaporosi tutù bianchi.

Dove vivevo, le scuole di danza erano poche e la scelta ricadde su quella in cui aveva studiato per breve tempo anche mia mamma. Niente da fare: ero troppo piccola; avrei dovuto aspettare i quattro anni. Non che io riuscissi a capire questa necessità, dettata da ragioni conosciute solo ai grandi, ma con un paio di videocassette riuscirono a farmi aspettare l’anno successivo.

E così arrivano le prime scarpette rosa, un tutù che riesumato qualche mese fa da uno scatolone mi ha fatto tanta tenerezza, scaldamuscoli, “scaldacuore”, e via alla prima lezione.

Non ho quasi nessun ricordo dei primi anni. Solo emozioni. L’inconsapevolezza propria dell’essere bambini, quando sul palco del primo saggio, esegui tenacemente esercizi ripetuti più e più volte, che ormai ti sono automatici. Ricordando ad ogni nota i suggerimenti della maestra: schiena dritta e sguardo sorridente. Devi pensare ad un filo che ti tira su dal centro della testa.

Col passare degli anni e un cambio di scuola, quella che all’inizio era sembrata una richiesta infantile si è dimostrata un serio impegno. La mattina imparavo a scrivere e a far di conto, il pomeriggio, due volte a settimana, imparavo l’impegno e il rigore. Si badi bene: la mia non è mai stata una scuola dove si andava per diventare prime ballerine. Gli insegnamenti che porto con me vanno molto al di là del saper fare una piroetta perfetta.

La danza è concentrazione. Impari subito che se vuoi fare una cosa fatta bene tutto di te deve essere lì dentro. Ogni muscolo e ogni pensiero devono essere dedicati alla riuscita del movimento. La danza è rigore, ma non rigidità. La precisione è impercettibile; la tensione di ogni muscolo e la coordinazione passano attraverso la mente, ma la dolcezza nel movimento viene dall’anima. Quando guardiamo un ballerino, non vediamo una ruga di fatica sul suo volto. Un sorriso ci viene regalato ad ogni passo. È forse questo l’esercizio più duro, e lo porto con me ogni giorno: passare attraverso la difficoltà con la leggerezza di un ballerino, trasformando il dolore e lo sforzo in un’esecuzione che sembri scevra da ogni fatica.

Oggi, è passato un anno da quando ho ripreso le lezioni. A quindici anni (sì, dodici lunghi anni fa) ho dovuto smettere: il liceo era troppo lontano dalla scuola di danza, eravamo quattro fratelli e la nonna, per quanto si prodigasse, non riusciva a gestirci tutti. Negli ultimi anni ho setacciato diverse volte Internet alla ricerca di una scuola dove ricominciare ma ogni volta (me ne rendo conto solo ora) mi sono cucita una bellissima scusa: troppo lontana, troppo cara, non avrò più le stesse capacità, figurati se a vent’anni qualcuno mi “prende”.

E invece a ottobre, grazie ad una buona dose di coraggio e volontà, ho alzato il telefono e ho richiamato la mia prima maestra: «ma certo, vieni». La prima lezione è gratuita. È stato il regalo più bello che potessi mai farmi. Eccitazione mista a tantissima paura, di non essere più capace, di essere troppo cresciuta, di non trovare una classe che mi accogliesse.

Non posso dire che sia stato semplice; ho sudato, sono tornata a casa stanca e il giorno dopo, tutti i muscoli mi hanno ricordato cosa fosse la fatica. Quanto ricevo indietro è però imparagonabile: la naturalezza di un gesto che ti appartiene, le emozioni che regali agli altri, proteggendo quella parte di noi che è fatta di vera passione e che tutti, forse, dovrebbero imparare ad ascoltare con sincerità.

AGGIORNATO IL 18 FEBBRAIO 2018

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