di Maria Elena Sini

Il libro di Anna Simone è stato al centro del convegno che si è tenuto all’università di Sassari: Maria Elena Sini ce ne dà conto in questo articolo
Il titolo del convegno che si è tenuto a Sassari il 13 maggio nell’aula magna dell’Università, organizzato dalla sezione cittadina della Fidapa (Federazione italiana donne arti professioni e affari), ha origine dal libro I talenti delle donne, scritto da Anna Simone, sociologa e ricercatrice presso l’università di Roma 3. Si tratta di una riflessione sul presente e sul futuro del femminile che cerca di leggere i mutamenti sociali del presente attraverso ventuno profili esemplari di donne, evitando il più possibile la retorica della vittimizzazione o, al contrario, l’esaltazione di un femminile da cui estrarre solo plusvalore economico. Le voci di Emma Bonino, Chiara Saraceno, Norma Rangeri, Ilaria Cucchi, Lucrezia Reiclin e di altre donne piene di talento e passione per quello che fanno raccontano il proprio percorso per dimostrare quanto le loro singole biografie, le loro esperienze e le loro scelte siano irriducibili alle narrazioni di superficie che, per fortuna o per sfortuna, a seconda delle circostanze, toccano l’universo femminile.
Attraverso questo mosaico di testimonianze l’autrice indaga i rapporti di potere che si realizzano nella politica, nel mondo del lavoro, nella vita quotidiana per dimostrare come possa essere possibile, nonostante tutto, per passione e per talento, riuscire a fare ciò che si desidera anche se si è donne.
Per questo motivo, su invito delle organizzatrici del convegno – Eugenia Tognotti, Noemi Sanna, Simonetta Sanna, Sabina Useli – donne di talento che operano nel mondo universitario, della cultura e delle professioni della città di Sassari hanno raccontato l’esperienza di donne e di studiose e il percorso professionale e politico che ha consentito loro di riuscire a fare ciò che desideravano, nonostante gli ostacoli e le difficoltà ancora esistenti nel contesto culturale e sociale in cui viviamo.
Le relatrici invitate hanno accettato di partire da sé stesse per raccontare il loro percorso e così Eugenia Tognotti, scrittrice e professoressa ordinaria della facoltà di medicina e chirurgia dell’università di Sassari, nel suo intervento ha illustrato il suo campo di ricerca, cioè una didattica della medicina di genere che eviti l’omologazione del corpo maschile e femminile. Fin dalle sue origini, infatti, la medicina ha focalizzato la sua attenzione esclusivamente sul corpo del maschio, dando per scontato il concetto secondo il quale il corpo femminile andasse valutato e trattato esattamente come quello maschile, dal Medioevo sino ai tempi moderni nella ricerca medica si è sempre tenuto presente il modello del corpo maschile, considerando la donna solo come corpo riproduttivo. Il suo lavoro, attraverso le ricerche di paleopatologia sui resti femminili, è andato proprio nella direzione di evidenziare le malattie tipiche delle donne, dato che il corpo maschile e quello femminile si differenziano dal punto di vista genetico, anatomico, fisiologico, funzionale, psicologico con la conseguenza che l’uomo e la donna possono soffrire della stessa malattia, ma ciascun genere la può manifestare con tratti fisiopatologici, clinici, prognostici e terapeutici diversi.
Nel ripercorrere la propria storia personale ha sottolineato come la provenienza da un ambiente provinciale possa essere stato uno svantaggio, ma proprio la Sardegna l’ha spinta a studiare la malaria come malattia che ha segnato la storia economica e sociale della sua terra e quegli studi hanno destato attenzione a livello internazionale favorendo il suo lavoro a New York presso gli archivi della Rockefeller Foundation. Per cui, anche se Eugenia Tognotti ribadisce che la sua carriera universitaria è stata lenta a causa di posizioni di potere consolidate nell’ambiente accademico, si ritiene fortunata per aver potuto trasformare degli svantaggi iniziali in opportunità.
Noemi Sanna, psichiatra, ricercatrice universitaria con più di 140 pubblicazioni su riviste scientifiche, dichiara in apertura di essersi occupata non solo di follia, che altera le capacità cognitive, ma anche di malinconia, disistima, atteggiamenti invalidanti che portano alla rassegnazione.
Dal peccato di Eva nel paradiso terrestre, considerata responsabile delle afflizioni dell’umanità, nella letteratura, da “Anna Karenina” a “Storia di una capinera”, ci sono molti esempi del masochismo morale delle donne che passano dal senso di colpa al farsi carico, accollarsi anche responsabilità non proprie. Dal suo punto di vista, mentre gli uomini narcisisticamente si vedono forti e invincibili, le donne non vedono le proprie possibilità e rimangono incastrate dalla cultura maschile che ipervalorizza la maternità e le doti che fanno della donna un perfetto angelo del focolare.
Per entrare ancora di più nell’argomento Noemi Sanna racconta la sua esperienza politica come consigliera regionale: dichiara di essere sempre stata attratta dal potere nell’intento di contribuire a prendere decisioni importanti che potessero migliorare la vita della collettività. Ma ha dovuto constatare che la politica è un affare da uomini: i tempi, i luoghi, le modalità di accesso tendono ad escludere le donne. Le modalità di richiesta del consenso intrusive e narcisistiche sono lontane dalle modalità compartecipative delle donne. Anche il linguaggio, aspetto simbolico da non sottovalutare, è decisamente maschilista, basta pensare alla perifrasi a sfondo sessuale che spesso usano i vincitori per definire gli sconfitti in campo politico.
Purtroppo dopo cinquanta anni di cultura di parità i dati statistici confermano che la presenza delle donne nei ruoli apicali è decisamente esigua perché la peculiare modalità di pensare delle donne, il forte sentimento etico, le porta spesso a ritirarsi spontaneamente da un mondo che ha un altro linguaggio e questo spiega la loro difficoltà ad incidere nella vita pubblica.
Nella sua relazione Simonetta Sanna, docente ordinaria di Letteratura tedesca all’università di Sassari, si chiede se esiste una attitudine tipicamente femminile e la risposta è la capacità di dedicare attenzione costante per arrivare alla soluzione dei problemi e, da germanista, mutua dalla cultura tedesca non il concetto di potere ma quello di responsabilità.
Fa riferimento alla propria esperienza politica come consigliera regionale e dice che dalla sua frequentazione del potere ha imparato a lasciare andare. Trae insegnamento da Hannah Arendt, la quale sosteneva che, quando tutti si lasciano trasportare dagli eventi, quelli che sono capaci di pensare escono dall’ombra perché il rifiuto di seguire la massa diventa appariscente. Non conformarsi diventa azione, la facoltà di giudizio diventa azione politica. Conclude la sua relazione sostenendo che la difficoltà femminile è proprio quella di costruire il proprio sé.
Infine Sabina Useli, avvocata del Foro di Sassari ha presentato un excursus storico sulla relazione tra donne e diritto. Racconta che alla donna dell’antica Roma non erano riconosciuti diritti, doveva sottostare alla tutela di un uomo, prima il padre e da sposata il marito, senza poter decidere di sé stessa, dei suoi beni, dei suoi figli. In questo clima, solo approfittando del vuoto legislativo e dell’assenza di una norma che lo impedisse chiaramente, donne come Ortensia, abile nella retorica, hanno esercitato l’avvocatura. Il rapporto con il diritto continua ad essere difficile per Lidia Poët, la prima donna ad entrare nell’Ordine degli avvocati in Italia. L’iscrizione non piacque al procuratore generale che fece denuncia alla Corte d’appello di Torino. Per molti anni Lidia Poët non poté quindi esercitare a pieno titolo la sua professione, ma collaborò con il fratello Enrico e divenne attiva soprattutto nella difesa dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne. Sostenne la causa del suffragio femminile. Non si sposò e non ebbe figli. Solo alla fine della I Guerra Mondiale, nel 1920, all’età di 65 anni entrò finalmente nell’Ordine, divenendo ufficialmente avvocata.
Partita da lontano l’avv. Useli conclude la sua relazione affermando che oggi, nonostante la tanto decantata parità, ancora sussistono differenze sostanziali nei redditi e nelle opportunità di accedere a incarichi di rilievo.
I contributi delle diverse studiose che si sono succedute hanno mostrato come, nonostante permangano ancora degli ostacoli, nel mondo ci siano buone possibilità per le donne di ottenere riconoscimento e cittadinanza a pieno titolo, ma l’intervento di Anna Simone, autrice del libro dal quale nasce l’idea del convegno, nel momento in cui le viene chiesta una sintesi, mostra subito la differenza di impostazione rispetto alle altre relatrici. La sociologa rifiuta la sintesi e cita “Sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi, la quale sostiene che la differenza sessuale e di genere è soprattutto di parola, rivendica il rifiuto di collocarsi in una dialettica ma intende rompere, tagliare, il modo maschile di ragionare dando la parola al corpo dell’esperienza. Respinge la pratica del partire da “sé” e rivendica la necessità di partire da “noi” per superare la dicotomia tra pubblico e privato.
Ribalta il punto di vista degli interventi precedenti dichiarando che l’emancipazionismo non è la sua cultura, ribadisce che la differenza è linguaggio, anche nella scrittura. Dichiara che l’attuale cultura chiede di essere oggettivi, meritocratici, competitivi e tutto ciò stride con il linguaggio di Simone Veil e Luce Irigaray le donne che hanno tracciato il percorso nel quale si riconosce negando la sintesi e insistendo nel ritenere ogni esperienza unica.
Racconta di aver rifiutato un lavoro che le era stato commissionato perché il committente intendeva valorizzare i concetti di Diversity management e womenomics, per sostenere che le donne sono utili alla crescita del paese. Ma questo taglio evitava di mettere in luce i momenti di crisi, le contraddizioni. Ritiene invece più interessante sottolineare le contraddizioni e fare di queste una ricchezza mettendo in discussione i luoghi comuni sulle donne: la donna vittima, la donna utile alla crescita del paese.
Contesta la “vittimologia” che desoggettivizza i corpi delle componenti deboli della nostra società (donne, omosessuali, immigrati, disabili) per non identificarli come individui singoli con una propria identità, ma come vittime. Il gran numero di episodi di violenza sulle donne racconta di una libertà conquistata dalle donne ma mai interiorizzata e recepita dal maschio, eppure si insiste sulle donne intese come vittime e non focalizza l’attenzione sulla crisi del maschile.
Ribadisce che il contesto contemporaneo è mutato, ci troviamo ora in un post-patriarcato, una sorta di paternalismo soft nel quale non si propone l’esclusione ma l’inclusione a determinate condizioni, si creano situazioni dove le attitudini femminili vengono utilizzate dal mercato. La cura, l’attenzione, la potenza (non il potere), la responsabilità, la capacità di fare rete vengono utilizzate per produrre plusvalore economico senza però cambiare la gestione delle risorse umane, mentre l’obiettivo non è “essere differenti” ma “fare la differenza”. Mettere in primo piano le donne come un “brand” è solo una falsa inclusione, Anna Simone ritiene che si debba mettere al centro l’idea di talento che non coincide con capacità, merito, competenza ma è “saper fare”, attitudine in più che non si può quantificare e mercificare perché è anche passione, desiderio di fare o non fare.
Il suo ultimo messaggio è un invito a non vivere la scissione tra essere e dover essere, tra pubblico e privato assumendosi la responsabilità di essere scomoda perché le donne spostano qualcosa quando non si fanno trovare al loro posto.