“Sanghenapule”: San Gennaro e Napoli in sei atti di sangue

Al Piccolo Teatro di Milano Roberto Saviano e Mimmo Borrelli raccontano la città attraverso il mito e il rito del suo patrono, che protegge solo i napoletani, ma conosce e perdona la disperazione (dal 10 al 18 gennaio 2017) 

Mimmo Borrelli in "Sanghenapule" (foto Piccolo Teatro)

Mimmo Borrelli in “Sanghenapule” (foto Piccolo Teatro)

di Alba L’Astorina

Napoli, si sa, non è una città ordinaria. E per raccontarla, a volte, si può solo ricorrere al mito. Quello di San Gennaro, forse, è il mito per eccellenza. Ce ne sono varie versioni, ma narrano tutte di un santo diverso dagli altri, uno che prescinde dal dogma. Che contempla e accoglie il peccato e accetta la trasgressione della regola, come possibile strategia per sopravvivere alle miserie umane.

Uno che non è neanche nato a Napoli, eppure è così fazioso che protegge solo i napoletani. Come dice Dumas, «il mondo può andare in fiamme, ma solo se piove su Napoli, lui si darà da fare». Un santo umano, che conosce l’equilibrio precario tra il bene e il male, tra il celeste e il sotterraneo, tra l’abbagliante luce della città e i suoi lati oscuri e contraddittori, tra la fede religiosa e il paganesimo che animano i riti dei suoi abitanti.

A raccontare la sua “storia straordinaria”, una tra le tante disponibili in una vasta narrativa che mescola cronaca e mito, sul palco del Piccolo Teatro di Milano, ci sono Roberto Saviano e Mimmo Borrelli in sei atti di sangue: Sanghenapule (dopo lo straordinario successo ottenuto ad aprile, lo spettacolo torna in scena dal 10 al 18 gennaio 2017).

Il primo sfonda la quarta parete e parla direttamente agli spettatori narrando le vicende di Napoli nei secoli, quelle conosciute, ma soprattutto quelle che molti non sanno, che però si svolgono sotto lo sguardo del Santo. Il secondo irrompe sulla scena come un fantasma evocato da quelle storie, ne fa rivivere la fisicità, trasforma in poesia la prosa. Un contrappunto di parole, suoni e gesti che parlano alla testa e al cuore, passando per corpi in cui il sangue si raggela e si liquefa in continuazione a testimonianza del pulsare irrequieto di questa città.

Saviano e Borrelli in “Sanghenapule” (foto Piccolo Teatro)

Saviano e Borrelli in “Sanghenapule” (foto Piccolo Teatro)

Sul palco, la vita di Ianuario, vescovo di Benevento, comincia dalla sua ascesa verso il patibolo, dove troverà la morte per mano del boia, il 19 settembre del 305 d.C., nel foro vulcanico della Solfatara. Rivolto a Dio, ai propri avi e ai fantasmi dei propri genitori, Gennaro confessa i propri dubbi e le proprie angosce per la sorte sua e quella dei suoi compagni perseguitati dai romani di Diocleziano. Parla uno strano idioma nel suo lamento, un misto tra sintassi italiana e lessico latineggiante che allude a ipotesi sulla lingua che si parlava al tempo, ancora oggi sconosciuta.

Secoli dopo, nel 472 d.C., il martire cristiano viene invocato nelle catacombe per fermare la furia del pericolo numero uno di Napoli, quello più temuto: il Vesuvio. Di cui, secondo la leggenda, Lucifero è causa e personificazione: cacciato dal Paradiso, l’angelo maledetto ne ha portato con sé alcuni brandelli che, scuotendo le ali, ha sparso in giro per il golfo di Napoli e questo spiegherebbe la coesistenza, nella città di Paradiso e Inferno. Gennaro ferma con l’imposizione della mano il fluire della sua furia lavica e da allora stringe un patto di sangue con la città che lo fa patrono.

Nel 1799 la stessa Napoli farà martiri i suoi più alti pensatori e intellettuali, rei di aver sognato un cambiamento radicale che potesse affrancarla dalla miseria e dall’ignoranza, su cui ogni potere fa leva per la sua sopravvivenza, ma anche di non aver saputo parlare al «vero combustibile di ogni evento rivoluzionario, il popolo». E così una massa di lazzari, contadini, borghesi, banditi e recidivi che sperano di vedere perdonati i propri reati, si arruola nell’esercito della Santa Fede del cardinale Ruffo e, sotto una bandiera bianca, «che diventava nera nella lunga marcia verso la città, inquietantemente simile a quella dell’Isis», affoga nel sangue l’unica rivoluzione italiana, sorella di quella francese.

“Per grazia ricevuta”, Cimitero delle Fontanelle, Napoli (foto Biagio Ippolito)

“Per grazia ricevuta”, Cimitero delle Fontanelle, Napoli (foto Biagio Ippolito)

Lo stesso san Gennaro viene accusato di giacobinismo, avendo favoreggiato la Repubblica permettendo la liquefazione del sangue davanti al generala Championnet e viene momentaneamente sostituito con Sant’Antonio. Gli autori scelgono, tra le tante parole pronunciate in quei giorni dai protagonisti della Repubblica Partenopea, quelle lucide e drammatiche di Domenico Cirillo, medico, botanico ed entomologo, prima di andare a morte: «Popolo che ha il pregio di accontentarsi che vive al sol dei sogni de poesia, ma non ensegue i sogni col daffarsi». Anzi, «popolo che non vole lo cambiento, ma no complice».

Nella scena successiva il santo segue la sorte dei tanti emigranti imbarcati sulle navi dirette a Ellis Island, tra cui i figli rinnegati dalle famiglie numerose dell’entroterra campano («ma ancor più abruzzese e lucano») venduti per pochi spiccioli. A ricordare la «tratta di schiavi» il racconto drammatico di un marinaio, indotto, come molti giovani in quegli anni, a soddisfare, nell’antro di botti vuote forate con buchi, i piaceri dei suoi compagni costretti a lunghe astinenze.

Il sesto e ultimo atto di sangue ci riporta nel ventre di Napoli, nel Duomo, dove dal 1389, si ripete un rito tre volte all’anno: il 19 settembre, giorno del martirio, il 16 dicembre, anniversario dell’eruzione del Vesuvio del 1631 e il sabato precedente la prima domenica di maggio, data della traslazione del corpo. Dove San Gennaro è evocato, ma se ci mette troppo tempo incitato con insulti («ma quale santo mai è disposto a farsi insultare?»), a fare il miracolo dello scioglimento del sangue.

Deposta la mitra rosso sangue, il santo, un Borrelli a torso nudo, si lancia in un finale che in parte ripropone il suo oratorio in lettura Napucalisse. In un esperimento linguistico «che vuole evocare l’effetto di una colata lavica», vengono sfilate tutte le corone di un rosario pieno di spine: «Napule ci sta ’o sole/ Napule ci sta ’a luna/ Napule c’a pummarola/ Napoli ’mpise a fune/ Napoli cacata/ Napoli chiavata/ Napoli sfriggiata/ Napule alliccata/ Napule priezza/ Napule allerezza/ Napule munnezza/ Napule a piezz ….». La tensione è al massimo e solo l’applauso finale, durato più di cinque minuti, riesce in qualche modo a restituire le emozioni stratificatesi durante l’intero spettacolo.

Napoli, statua di Padre Pio (foto Ciro Prota)

Napoli, statua di Padre Pio (foto Ciro Prota)

Sanghenapule è l’esito di un «doppio laboratorio» in cui Saviano e Borrelli intessono una trama che intreccia passato e presente, mito e storia, cronaca e tragedia classica, la vicenda personale degli autori e quella collettiva di molti popoli, la “Napoli di chi fugge e di chi resta”. E il pubblico di Milano, l’unico che al momento potrà vedere lo spettacolo, ha saputo apprezzare. Anche questa è una contraddizione che si assomma alle tante di questa città. Si ripete il destino che tocca a molti napoletani (ma si potrebbe dire anche di molti italiani) che si battono, ieri come oggi, per il cambiamento, quello di essere ascoltati fuori dai propri confini più che in patria, di doversi allontanare da Napoli per poter sperimentare il cambiamento.

Così ancora oggi si ignora che è stato il filosofo Gaetano Filangieri, in una fitta corrispondenza con Benjamin Franklin, a ispirare il principio del “diritto alla felicità” che da secoli costituisce uno dei fondamenti della Costituzione degli Stati Uniti d’America. O quello di essere puniti perché ci si ostina a voler raccontare le ferite di questa città, i suoi lati oscuri. Mi tornano in mente i funerali di Pino Daniele e quel corpo restituito alla città solo da morto.

Ma Sanghenapule è anche una narrazione barocca, dove c’è tanto perché di Napoli c’è sempre troppo da dire e dove, per questo, si deve sacrificare anche sempre qualcosa, come di certo mancherà qualcosa a questo mio personalissimo racconto dello spettacolo. Manca, in Sanghenapule, la Napoli femminile, quella di Eleonora Pimentel Fonseca, forse l’unica tra i protagonisti della Rivoluzione Napoletana ad aver capito che il punto debole di Napoli era la condizione di miseria del suo popolo. Manca la Napoli di Santa Patrizia di Costantinopoli che, ma pochi lo sanno, è patrona della città insieme a San Gennaro. Ma, lo dice lo stesso Saviano all’inizio dello spettacolo, questa è solo una delle tante storie possibili. E poi, parafrasando Borrelli: «Napule venitece vuje, Napule a la raccuntà».

AGGIORNATO IL 22 DICEMBRE 2016

2 thoughts on ““Sanghenapule”: San Gennaro e Napoli in sei atti di sangue

  1. bellissimo articolo, un veloce rincorrersi di fievoli realtà e prorompenti storie di un personaggio leggendario San Gennaro. Legato a Napoli dallo stesso sangue Gennarino è Napoli, Napoli è Gennarino. Bello il riferimento ad Eleonora, a Domenico Cirillo, martiri di una rivoluzione che partì dalle viscere della città ma che trovò l’ostacolo ancestrale dei capo bastoni, del movimento dell’atavica Fame di Napoli, della presenza nel passato, nella realtà e ahimè nel futuro dei suoi “Lazzari felici”

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