di Elena Novati

(Illustrazione da http://www.meetup.com)
4 marzo 2016 e 5 novembre 2014: due articoli (?) identici (anche con le stesse testimonianze) su un tema quanto mai attuale, pubblicati su D.Repubblica.it, che hanno messo in luce la delicata questione riguardo la scelta di coppia nel mettere al mondo un figlio; nello specifico, i pezzi vertono sull’annoso dibattito che nasce quando un uomo, all’interno di una coppia, non sembra essere intenzionato a volere figli. Questo l’articolo (doppio, nemmeno a dire di volersi sforzare a scrivere qualche parola in più) che porta la firma di Gianna Melis: conviene che investiate i vostri prossimi 5 minuti di tempo e li dedichiate ad un’attenta lettura del pezzo, perché mi pare chiaro che ci sia qualcosa che non torni. Se, da donne ancora prima che da appartenenti alla più generica categoria di “genere umano”, non vi sta pulsando nemmeno una vena a lato di un occhio o un’arteria del collo, potrebbe essere il caso di farsi un esame di coscienza e ripensare alla propria onestà intellettuale in merito alla questione sollevata.

«Quando dico “Non voglio figli” intendo dire “Non voglio figli”». (Illustrazione da wildfeministappears.wordpress.com/)
2014: “Se lui non vuole un figlio”
2016: “Siamo felici ma lui non vuole un figlio e io sì”
Il primo era stato pubblicato a ridosso della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la sua orribile copia, invece, a ridosso della Festa della donna (non è questa la sede per discutere del significato della “festa”, ma è stato un gesto davvero di autolesionismo in termini di tempistiche, forse voluto?). Vale dunque la pena sottolineare quanto fastidioso possa risultare, per una persona normodotata di senso critico, trovarsi a leggere frasi che certamente non aiutano ad inserire la donna in un contesto di parità di genere e di trattamento. Cito testualmente perle di questa caratura:
«Se procrastinare è il suo vizio, lascia che sia il tuo orologio a decidere il momento giusto. Chi rimanda, rimanda e rimanda le decisioni all’infinito, in realtà vuole essere messo davanti al fatto compiuto.
Cosa fare: non chiedergli mai “Allora, quando?”. Prendi l’iniziativa e quando sei convinta che sia il momento giusto, lascia che la natura faccia il suo corso. Vedrai che dopo il momento iniziale di stupore, sarà felice di fare il papà».
Ora, se a detta della psicoterapeuta Katia Vignoli (la specialista che ha generosamente elargito consigli per convincere un uomo a voler diventare padre) esistono soluzioni per superare la non-volontà del partner a diventare padre, mi viene automaticamente da chiedermi come si potrebbe giustificare un consiglio come quello citato poco sopra. Prendere l’iniziativa e lasciare che la natura faccia il suo corso, mettendo l’ignaro-futuro-padre dinanzi al “fatto compiuto”, in cosa si traduce? Propongo di dare un nome alle cose: imbrogliare, incastrare, obbligare. Tutte azioni che non presuppongono di certo un antecedente dialogo, una conoscenza vera di se stessi mi verrebbe da dire. Sarei curiosa di sapere cosa vuol dire, per la psicoterapeuta, «prendere l’iniziativa e mettere il partner davanti al fatto compiuto»: nella mia testa si fa spazio la tragicomica immagine di una disperata in cerca di fecondazione che passa il tempo libero a bucare i preservativi o prende mentine al posto della pillola anticoncezionale. Confesso che all’inizio ho riso, perché l’immagine rimanda un po’ a scene da fiction o commedia, ma è trascorso poco tempo per passare dalla concezione di “ridicolo” a quella di “squallido”. Se scrivere su una rivista dedicata alle donne vuol dire proporre articoli di questo tipo, allora credo sia il caso di spostare la rivista nel cumulo della raccolta differenziata per la carta.

Elena Novati si è laureata in Psicologia dei processi sociali, decisionali e dei comportamenti economici con una tesi dal titolo “Childfree o childless? La concettualizzazione del termine e l’applicabilità della Stigma Theory” . Pubblicheremo presto una parte del lavoro svolto da Elena con la sua relatrice Elisabetta Camussi. (La foto è attinta da Facebook)
A prescindere dall’idea personale che ognuno può legittimamente avere in merito alla volontà o necessità di mettere al mondo un figlio, mi piacerebbe chiedere alla psicoterapeuta intervenuta nel pezzo della signora Melis, cosa dovrebbe spingere una donna, se non l’egoismo, ad ingannare il partner per poter finalmente raggiungere lo scopo della maternità. Non so se sia un aspetto secondario o che in pochi/poche notano, ma un “consiglio” simile rischia di annullare ogni sforzo proteso al raggiungimento di una società nella quale vi siano pari opportunità. Avete mai sentito parlare di autosabotaggio? Ecco, parole come quelle dell’articolo su D.Repubblica mi sembrano un perfetto esempio del termine: se invece di rivendicare il solo diritto ad avere un figlio a priori, si rivendicasse la necessità di dialogare e confrontarsi su temi come le politiche sociali inconsistenti ed un mercato del lavoro che, per quanto ridotto all’osso, punta tutto su posizioni mal retribuite (nel migliore dei casi, perché oggi mi sento pervasa da un picco di ottimismo) se non completamente a titolo gratuito (e non parlo di Onlus, lo sapete meglio di me), forse si potrebbe trovare il modo di coinvolgere e rendere comune ad entrambi i sessi un tema, quello delle pari opportunità, che non si può affrontare sempre e solo puntando il dito in toto verso una categoria. Insomma, donne, non cadiamo nel tranello della bipartizione del mondo in categorie distinte solo dalla natura sessuale: il rischio è quello di auto-ghettizzarsi e fare il gioco dei milioni di ignoranti che non vogliono vedere la realtà dei fatti, ovvero una seria presenza di disparità di genere che andrebbe combattuta cercando coesione e non creando barricate.
Complimenti vivissimi all’autrice ed alla professionista prestata al giornalismo da bassa cucina.
I LOVE This!!!Baci,Martina
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Thanks!
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Hi, Martina, how are you?
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Ma è fantastico questo consiglio: imbrogliare. Come fanno tutte le categorie di persone in stato di servitù. Se non temessi di offendere le comari, lo definirei un consiglio da commare.
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Ragazze, che dire? Certi giornaletti patinati sanno sempre come dare ottimi consigli. Per quanto mi riguarda, provo un sincero disprezzo nei confronti di una certa sub cultura che vorrebbe le donne emancipate, salvo poi continuamente affibbiare loro la figura di “madre santa” o “carrierista stronza”, creando e rafforzando l’inscindibile connubio di quello che, attualmente, rappresenta uno dei quadri più veritieri (sempre a parer mio) della cultura italiana medio bigotta: la donna è mamma, la mamma è sempre la mamma. Va bene emancipare, ma non troppo eh, che poi altrimenti come facciamo a far la figura delle streghe che imbrogliano l’ometto malcapitato di turno?
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Da maschio (come dice Massimo Fini) non posso che essere d’accordo con quanto scritto. L’emancipazione della femmina (sempre riprendendo l’ex cronista dell’Europeo) passa ANCHE dal sovvertire queste dinamiche idiote che prevedono – per forza di cose – l’affibbiare il ruolo di mamma ad una donna. Pensateci bene: siamo ancora lì, non siamo (noi, società civile italiana) cambiati in niente: la donna è ancora quella che se le cerca se prende la metro di notte da sola e/o se, uscendo con le amiche o semplicemente per i fatti suoi, mostra 3 cm di coscia in più. La giustificazione (uscita ANCHE da bocche femminili)? “Istighi il maschio”. L’ISIS tra noi senza attendere i barconi dalla Libia.
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