Fuori dalla finestra Milano, dentro “un disperato bisogno di debolezza”

di Francesca Duranti*

Milano, autunno 1989

Il settimo racconto è autobiografico e non ha titolo. Potrebbe anche essere scritto in corsivo.

La vicenda comincia nel punto dove ho terminato l’ultima stesura della Carezza di Dio e ho dato alla macchina l’ordine di stampare.

Sono uscita sul terrazzo e mi sono seduta su una poltrona a sdraio posta a metà strada tra il crepitio della stampante, proveniente dallo studio, e il canto dei merli, che saliva dal terrazzo della signora Imposimato. Cullata dall’effetto stereofonico ho ripensato alle notti invernali sul treno della Cisa, agli arrivi alla Stazione Garibaldi deserta, all’attesa del taxi, alla consolazione di arrivare finalmente nella soffitta di Mina.

Mina è toscana come me ed è stata mia compagna all’università: è stata, per meglio dire, la mia unica compagna di università. Io, già da matricola, ero sposata con Carlo e aspettavo Nicola. Il bambino è nato in agosto, a metà strada tra Diritto Romano e Istituzioni di Diritto Romano. In seguito avevo un bambino piccolo e poco tempo da perdere. Così non frequentavo molto le lezioni e meno che mai partecipavo agli impercettibili movimenti studenteschi o alla intensa vita goliardica di quegli anni. Ero un’estranea che andava a dare gli esami in un posto dove tutti mi erano estranei e tutti si conoscevano tra di loro.

Mina, che aveva un paio d’anni più di me e faceva parte in pieno di quel mondo, era il punto di contatto perché abitava vicino a casa mia. Il pomeriggio, rientrando da Pisa mi veniva a trovare con le dispense e gli appunti nella borsona a tracolla; prendeva in braccio Nicola, lo cambiava, gli faceva il bagnetto. Si sedeva con me in salotto e insieme prendevamo il thè con i pasticcini. Eravamo due ragazzine che giocavano: io permettevo a lei di giocare alle signore, lei mi portava le immagini di un’età alla quale avevo rinunciato.

L’ho persa di vista solo molti anni dopo, quando vivevo già con Marco.

Pagine di Milano

Questa è l’immagine scelta per illustrare “Pagine di Milano”, un percorso per scoprire (e il verbo è più che mai appropriato) i luoghi della città legati ai capolavori della letteratura. Iniziato a giugno con una conferenza del curatore, lo storico Valentino Scrima, il progetto del Sistema Blibliotecario di Milano va avanti tutta l’estate 2015 tra quel che resta della capitale dell’Impero romano d’occidente, cortili, chiese, piazze e statue che inosservate guardano dall’alto i passanti distratti. http://www.comune.milano.it/

Lei aveva sposato un vedovo milanese con due figli grandi e lo aveva seguito a Milano. Ci scrivevamo un paio di volte l’anno ma non ci siamo riviste se non dopo essere rimaste tutte e due scompagnate: lei vedova e senza un soldo, io separata e con qualche modesta agiatezza.

È stato suo il consiglio di trasferirmi a Milano, e per molti mesi, durante il mio pendolarismo di transizione, è stata la sua casa che mi ha ospitato per tre o quattro giorni alla settimana. Avevo la chiave e andavo e venivo a tutte le ore, cercando un appartamento prima, sorvegliando i lavori di riparazione poi. Facevo io la spesa, nel tentativo di ricambiare la sua generosità. Lei cucinava dei pranzi raffinatissimi, e spesso invitavamo amici in quella sua stamberga scomoda e piena di fascino.

Mi è quasi dispiaciuto, quando ho potuto prendere possesso della mia casa; ma allo stesso tempo ero anche felice di poter trasferire a Milano i ragazzi.

Avevo trovato un bell’appartamento, che è lo stesso dove vivo ancora, di fronte alle colonne di San Lorenzo. Ogni mattina aprivo la finestra e mi dicevo: “ecco, questa è la finestra della mia casa, io la spalanco e fuori c’è Milano. Ora andrò a svegliare i ragazzi e loro berranno il latte della Centrale di Milano, usciranno in corso di Porta Ticinese, cammineranno fino al Carrobbio e lì prenderanno un tram – un tram dell’Azienda Tranviaria Milanese – che li porterà alla loro università, l’università statale di Milano”. Me lo dicevo con inesauribile fierezza, anche se non avrei saputo dire perché il fatto di aver portato i miei figli, le mie cose, la mia vita a Milano avesse per me un così profondo significato.

Cristo in casa di Marta

Allessandro Allori, “Cristo in casa di Marta” (1605). Si può vedere la copia di un dettaglio di questo dipinto andando a scoprire i resti del battistero di San Giovanni alle fonti, sotto il Duomo, visibili in minima parte anche attraversando con occhio attento la stazione della metropolitana. Le testimonianze paleocristiane e Sant’Agostino sono stati il cuore del percorso guidato del 12 agosto 2015 di “Pagine di Milano”.

Milano mi ha ricompensato della mia devozione permettendomi di lavorare con qualche buon risultato, offrendomi qualche storia d’amore, tante conoscenze e poche amicizie. Perché a Milano l’amicizia è un impegno strenuo a cui è necessario dedicarsi senza mai distrarsi un attimo, per non correre il rischio di perdersi nel vortice e subito essere dimenticati o dimenticare: e io forse non sono capace di sentimenti strenui.

Con Mina era diverso: sapevo che avremmo potuto perderci di vista per lungo tempo – come del resto era già accaduto – senza dimenticarci.

E accadde ancora, infatti, ogni volta che io mi ingolfavo nelle mie storie d’amore così assurdamente coniugali, con Giovanni – prima – poi Bruno e poi ancora Paolo installati in casa mia a fingere sentimenti paterni nei confronti dei miei figli, e io con la penna della scrittrice in una mano e il mestolo della massaia nell’altra a cercar di ricreare una commediola, un presepe di cartone a cui nessuno credeva.

Allora i rapporti con Mina si allentavano, e riprendevano in pieno solo quando rientravo nei miei brevi periodi di solitudine.

Come ogni rapporto umano il nostro aveva una sua ragion d’essere istintiva, sentimentale e una legge che ne regolava il funzionamento. La base sentimentale era una autentica, profonda amicizia; la mirabile complementarietà delle nostre due situazioni stabiliva la legge del nostro patto, e non occorreva aggiungere altro.

Mina precocemente e non brillantemente pensionata; io occupatissima e in condizioni economiche di anno in anno più soddisfacenti, Mina bravissima cuoca, massaia ordinata, efficiente, estroversa; facile ai contatti umani. Io disordinata, bisbetica, timidissima.

La invitavo a cena: lei arrivava con un paio d’ore di anticipo e in un baleno raddrizzava magicamente la mia casa. Sbrinava il frigo, portava via – per il suo gatto – gli avanzi non più utilizzabili; smistava la posta, gettandone una gran parte nella spazzatura e obbligandomi a rispondere quando era indispensabile. Cambiava il filtro alla friggitrice. Sostituiva le lampadine fulminate, portava in lavanderia le tende.

Io mi abbandonavo alla sua efficienza con commossa gratitudine: naturalmente non le ho mai dato uno stipendio, però le facevo dei regali, la portavo con me in vacanza, le procuravo qualche lavoro saltuario, traduzioni per lo più.

Proprio nei giorni in cui avevo completato l’ultima stesura della Carezza di Dio, Mina aveva ricevuto lo sfratto dal suo padrone di casa. Avrebbe potuto, naturalmente, resistere per anni; ma, mentre sedevo in terrazzo tra il crepitare della stampante e il canto dei merli, mi dissi che la cosa più logica sarebbe stata che Mina venisse a stare con me.

Non fingo neppure con me stessa di aver pensato solo al suo vantaggio: e perché poi? Quello che mi spinse fu il bisogno, che già sentivo da un pezzo, di aver qualcuno che si prendesse cura di me, non esito a confessarlo. Il racconto, che si stava scrivendo da solo, srotolandosi sul modulo continuo, diceva: “un disperato bisogno di debolezza”. Era quello, per l’appunto. Cercavo il miracoloso ritorno all’infanzia a cui tutti, prima o poi anelano; ancor più miracoloso nel caso mio che non avevo mai conosciuto nulla di simile a un’infanzia da rimpiangere, essendo stata tirata su con efficienza ma non certo con amore; più come un Lipizzano da addestrare che altro.

Doveva essere un ritorno a un’età dorata altrui, spiata dalla fessura di una finestra, invidiata. E poiché, dopo una serie di matrimoni sbagliati – regolari e non – mi ero convinta che amore e convivenza quotidiana non si potevano mescolare, volevo un rapporto amichevole, affettuoso, leale, e del tutto esente da coloriture erotiche. In teoria avrei potuto immaginarlo anche con un uomo, ma solo in teoria. Sapevo bene che, fino a quando rimarremo in questo secolo, bisognerà accettare il fatto che solo le donne sanno rassegnarsi a recitare con grazia la parte di spalla. E quindi volevo una moglie, in sostanza, ma senza implicazioni amorose. Una moglie un po’ più vecchia di me, materna, coccolona.

paola-di-bello

Dal diario Facebook di Paola Di Bello, una foto di Cosmo Laera scattata il 13 dicembre 2016 al Museo del Novecento di Milano che, fino al 12 marzo 2017, ospita la mostra “Milano Centro”, «focus dedicato al lavoro di Paola Di Bello, che propone una visione di città e periferie attraverso nuove angolazioni. A cura di Gabi Scardi». (http://www.museodelnovecento.org/)

Con Mina sembrava tutto così chiaro e leale, illuminato e benedetto dal sentimento eterno che è l’amicizia, senza essere turbato dalle passioni traditrici dell’eros. La sua sarebbe stata una presenza capace di proteggermi dalla mia insana inclinazione per il matrimonio, rendendolo, oltre che inutile, anche impraticabile. L’ampiezza della mia casa avrebbe consentito sia a me che a Mina di fare i nostri comodi senza disturbarci, ma, prima di soccombere alla tentazione di installare stabilmente un altro cialtrone nella mia vita, sarei stata costretta a una serie di manovre di ordine logistico, che mi avrebbero dato il tempo di cambiare idea.

* Da “Ultima stesura” di Francesca Duranti (Rizzoli, 1991). Libro prezioso: l’ho comprato appena è uscito e sei anni dopo, precisamente il 10 luglio del ’97, l’autrice me lo ha autografato grazie all’intermediazione di una collega che era andata a intervistarla e alla quale avevo affidato la mia copia. Otto racconti, ognuno dei quali è interrotto da riflessioni sulla scrittura e dalla descrizione spesso ironica dei “cerchi” piccoli e grandi, tristi e felici, che la vita disegna. Come nel caso dell’amicizia al centro di questo settimo racconto, che evolve in una direzione imprevista. Fate attenzione alle didascalie delle immagini! (p.c.)

AGGIORNATO IL 15 DICEMBRE 2016

4 thoughts on “Fuori dalla finestra Milano, dentro “un disperato bisogno di debolezza”

  1. Scrittura fluida che fa scivolare il lettore assieme a lei. Scorcio bellissimo… Pare di essere lì dietro quella finestra…Milano, pare di averli addosso quei sentimenti…

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