di Itala Vivan*

Nel 2017 la mitica 500 compie sessant’anni: possiamo unirci ai festeggiamenti con un ricordo specialissimo. (Foto da: https://www.facebook.com/pg/fiat500clubitalia/photos/?ref=page_internal)
Fu nel 1961 che io andai in America in 500. E come fu? Beh, per caso. Avevo appena comperato una 500 bianca con gli ultimi spiccioli di una imprevista eredità e amavo intensamente la mia piccola stupenda vettura decapottabile, quando vinsi una borsa di studio Fulbright per andare a studiare Comparatistica in un programma di PhD negli Stati Uniti. Sebbene l’università non fosse quella che avevo chiesto – mi assegnarono all’università di Lawrence nel Kansas – decisi di accettare comunque.
L’idea di andare in America era troppo attraente, e avevo voglia di continuare a studiare. Gli amici erano entusiasti della mia avventura, anche perché a quell’epoca ben pochi andavano laggiù, e meno ancora ci andavano a studiare, soprattutto se erano squattrinati. Ma c’era un problema: che fare del “carretto” (così era stata battezzata la mia 500)? Non mi rassegnavo all’idea di disfarmene o lasciarla a casa, perché era diventata la compagna fedele delle mie gite e dei miei viaggi, il mio giocattolo preferito.
Finì che tra gli amici ve ne fu uno che trovò la soluzione, e me la fece spedire gratis a New York. Gli armatori Costa di Genova contribuirono così alla felicità di una ragazza che amava sì lo studio, ma adorava le automobili e si incuriosiva dei motori.
La 500 bianca targata Milano sbarcò prima di me sulla riva americana, e una volta scesa dalla “Leonardo da Vinci” – la nave ammiraglia italiana di quegli anni – io andai a ritirarla al deposito. Gli scaricatori del porto di Newark che mi accompagnarono non la finivano più di prendermi in giro: avevano issato la 500 su un’alta terrazza da cui dominava un esercito di immense, lussuose macchine americane luccicanti di pinne e cromature e fanali pazzeschi, e la sollevarono come fosse un bimbo piccolo, facendola dondolare, e raccomandandomi di darle spesso il biberon.
Lasciai Newark, e poi New York, con le mani che tremavano sul volante per l’emozione, e presi la direzione sud. Fino a Baltimora mi accompagnò Paolo Farneti, che era venuto anche lui a studiare in America, ma sarebbe rimasto a New York. Poi, dopo una tappa a Washington, fui tutta sola nella mia 500 e presi la George Washington Highway, la mitica Fifty West che puntava dritto verso il cuore del continente.
Arrivai a Lawrence dopo cinque giorni di viaggio assolutamente epici, fermandomi a dormire quando ero troppo stanca per tenere il volante, oppure quando incontravo dei posti che mi attiravano: infatti passai una notte ad Athens, Ohio perché mi parve imperativo fare sosta in una Atene americana.
Forai solo una volta, ma il motore andò sempre benissimo. La 500 era una macchina spettacolare, e il mio meccanico di Milano — che aveva un passato di collaudatore e curava soltanto fuoriserie e macchine sportive di lusso – aveva fatto una messa a punto perfetta, anche perché si era innamorato di quella ragazza un po’ matta che partiva per l’America in 500.
Naturalmente non potevo correre granché, né gareggiare con altre macchine, anche perché ero una pulce accanto a loro. I camion – gli immensi trucks, bolidi ruggenti e variopinti – erano così alti che non mi vedevano neppure. Molti automobilisti rallentavano, guardavano, lanciavano lazzi, mi chiedevano se la mia auto andasse a transistors. «Naturalmente», rispondevo io; e continuavo imperterrita.
Dopo la Fifty West, che era una semplice highway, entrai nella grande turnpike che andava verso ovest e lì la vita si fece difficile perché tutto sembrava fuori misura. Non mi ero ancora abituata alle dimensioni del continente, alle enormi distanze e alle situazioni atmosferiche dure e talora estreme. Ma la mia 500 fu straordinaria, e se la cavò benissimo. Arrivammo felicemente a St.Louis, nel Missouri, attraversammo le acque del Mississippi pensando a Huck Finn, e rimanemmo a bocca aperta dinanzi alla tozza colonna rosso scuro su cui troneggiava la figura di un bovino. Da noi, infatti, sulle colonne ci stavanno gli stiliti, oppure i santi e le madonne.
L’ingresso a Lawrence, Kansas – cittadina della Bible belt che un secolo prima era stata teatro dell’epopea di John Brown – segnò la conclusione della traversata del continente e mi portò nel cuore dell’America e di un campus che più americano di così non si poteva.
La 500 non ci mise molto a diventare celebre, ed io con lei, grazie alla sua eccezionalità. Rimasi in Kansas per un anno accademico. Il carretto superò brillantemente i rigori dell’inverno e le furie dei tornado primaverili; e in giugno ci mettemmo di nuovo in strada per ritornare a est, dove, entrata in una università della costa orientale dove si faceva davvero Comparatistica, sarei rimasta altri due anni, sempre con la mia 500, che diventò una perfetta nuovayorkese e scarrozzò me e i miei amici in gite memorabili, come quella al Newport Jazz Festival del 1962. Avevo imparato ad aggiustarla da sola, grazie alla semplicità essenziale del suo motore, ed ero diventata maestra nell’indispensabile doppietta.
La cedetti ad altri quando lasciai gli Stati Uniti all’indomani dell’assassinio di Malcolm X. I ghetti urbani erano in fiamme, John Kennedy non c’era più. Si profilava già la tragedia del Vietnam, e i figli dei fiori stavano inventando la loro rivoluzione.
Credo che da qualche parte del continente il mio carretto bianco circoli ancora instancabile, suscitando l’allegria degli americani nelle ampie turnpike da dodici corsie e sugli sconfinati rettilinei polverosi del South West. Ora sarà contento all’idea che presto (1) altre Cinquecento popoleranno le grandi strade d’America, imponendo altre velocità e suggerendo nuove modalità di vita e di movimento.
* Itala Vivan, specialista di studi culturali e postcoloniali, è professore (a precisa domanda ha risposto che preferisce essere definita così, ndr) all’Università degli studi di Milano. Ha contribuito a far conoscere al pubblico italiano i massimi scrittori africani e caraibici, curando la pubblicazione di romanzi e raccolte di racconti e poesie per conto di varie case editrici. Per diversi anni ha diretto la collana di narrativa africana e caraibica “Il lato dell’ombra” per le Edizioni Lavoro di Roma.
1) Questo articolo è stato pubblicato il 23 maggio 2009 sul quotidiano l’Unità, subito dopo l’annuncio dell’amministratore delegato dell’allora Fiat, Sergio Marchionne, di esportare la 500 negli Stati Uniti (con esiti peraltro disastrosi). «Ma certo, non è una macchina adatta a quei climi, io ne so qualcosa», commenta oggi l’autrice di questa pioneristica avventura.
AGGIORNATO IL 2 LUGLIO 2017
Itala, mi hai fatto sognare, ricordando il bellissimo periodo di studio che ho trascorso come Fulbright a New York nell’ estate del 1984. Oggi mi pento di avere trascorso “troppo” tempo sui libri e meno a scoprire le magie americane. D’altra parte non avrei comunque potuto fare molto di più del tanto che ho già fatto allora. Forse avrei potuto prolungare il soggiorno per il mitico coast to coast. Ma non avevo la cinquecento Bianca… e allora,va bene così. Tengo stretti al cuore tutti i momenti vissuti con i compagni Italiani e Americani, tra cultura, scoperta e divertimento. Ancora grazie! Ornella
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Grazie Ornella, che cosa studiavi negli Stati Uniti? E che cosa fai ora? Torni ancora a New York, città straordinaria e unica al mondo?
Laggiù non ti è mai capitato di incontrare la mia Cinquecento vagabonda, eh?
Oggi è facile e anche comune andare in America, ma anni addietro l’andarci implicava un salto all’infuori della propria realtà culturale.
Io ci torno abbastanza spesso, vedo come cambia il paese e come la loro destra diventa sempre più livida e anche pericolosa: sono preoccupata all’idea che i repubblicani possano vincere le prossime elezioni, dopo aver messo in croce Obama e avergli reso impossibile innovare il sistema paese.
Ciao Ornella, arrivederci Itala
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Grazie.
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