Pinuccio, che Dio ti benedica

di Alba L’Astorina

La chitarra, in una piazza gremita da 100 000 persone, esibita a mo' di fazzoletto da Domenico mio figlio nel momento del saluto (foto dal Mattino di Napoli)

La chitarra, in una piazza gremita da 100 mila persone, esibita a mo’ di fazzoletto da Domenico, il figlio dell’autrice, nel momento del saluto (foto dal Mattino di Napoli)

«Può capitare di avere tutto il proprio passato sulla punta della lingua come un gigantesco inammissibile lapsus. Una straripante bolla di amnesia può trattenerlo per decenni, poi qualcuno da qualche parte butta una sigaretta dal finestrino e quel po’ di brace ne buca la superficie scatenando l’alluvione.»

È stata proprio come la sigaretta buttata dal finestrino, per me, la morte di Pino Daniele, avvenuta nella notte tra il 4 e il 5 gennaio scorso per un ennesimo affanno del suo cuore. Ed è un sentimento a lungo trattenuto quello che «l’alluvione», come la chiama Francesca Ramos nel suo bellissimo passo con cui ho voluto cominciare questo mio ricordo personale dell’artista, ha liberato: l’amarezza per una separazione consumatasi già molto tempo fa, quando il cantore napoletano si era allontanato da molti di noi, o noi da lui.

Ho cominciato a seguire Pino Daniele giovanissima, dal suo primo esordio nel 1977 fino agli anni del suo mitico concerto del 1993 a Cava dei Tirreni. Ogni suo nuovo album, quasi uno all’anno, era un appuntamento atteso con grande interesse da me e dai miei amici, che non ci deludeva mai. Terra mia, Nero a metà, Pino Daniele, Vai mo’Bella ‘mbrianaMusicante raccontavano meglio di tanti articoli su Napoli, a noi che ci vivevamo e a chi «non riusciva a capì», le tante «verità» sulla città e sulla sua gente. Con rabbia e incazzatura, senza sconti per nessuno.

Napul'è (foto di Ciro Prota)

Napul’è (foto di Ciro Prota)

Cantava la Napoli contesa tra le speranze di cambiamento dell’amministrazione Valenzi e i nuovi saccheggi del dopoterremoto, Pinuccio in quegli anni. Una città ancora fortemente segnata dai rombi dei carri armati americani e dalle nuove planimetrie urbane tracciate dalle varie “mani sulla città”. In un clima di inquietudine politica e sociale, le note dell’Uomo in blues portavano il tempo delle nostre «camminate senza Dio», a casa di Annamaria a Piscinola, con Marco, Ciro e Nicola il ferroviere. E, nell’epoca dei primi baci nascosti, mi riconoscevo nel suo modo di cantare l’amore non come nota autobiografica ma come stato dell’anima; un’avventura esistenziale, di cui avvertiva il carattere, profondamente umano, della sfida.

Giovanni La Guardia, che insegnava sociologia della cultura all’Orientale di Napoli, per capire il clima di quegli anni, mi aveva invitato ad approfondire il fenomeno culturale del cosiddetto “Neapolitan power” che mescolava tradizione artistica campana con rock, blues, funky e jazz e da cui erano emerse figure molto diverse come Alan Sorrenti, i fratelli Bennato, gli Avion Travel, Napoli Centrale, la Nuova Compagnia di Canto Popolare che in quegli anni era sotto la direzione artistica di Roberto De Simone. E io avevo dedicato un capitolo della mia tesi di laurea a Pino Daniele. Insieme una scusa e un’occasione per conoscerlo di persona. Era stato durante la lavorazione di Ferry Boat, quando con Biagio e Rosario eravamo andati a intervistarlo nella sua casa discografica di Formia, i Bagaria’s Studios, in un colloquio ravvicinato che ci aveva lasciato scossi per giorni. Ricordo ancora la sua reazione schiva al motivo della mia richiesta di incontro: «Ma che ‘a fai affa’ ‘sta tesi?», come a ironizzare che sulla sua musica si potessero scrivere discorsi intellettuali.

Funerali di Pino Daniele in piazza Plebiscito a Napoli (foto di Biagio Ippolito)

Funerali di Pino Daniele in piazza Plebiscito a Napoli (foto di Biagio Ippolito)

Poi, avevo smesso di seguirlo con assiduità, fino a quasi perderne le tracce, quando la sua musica aveva preso nuove strade, più internazionali e virtuose, abbandonato il dialetto, in cui si era sempre espresso fino ad allora, e smesso, a mio modo di sentire, di farsi ispirare dal mondo che per anni ci aveva unito. Aveva messo una «distanza di sicurezza» tra sé e la sua città, Pinuccio, ma non aveva perso il contatto con la sua parte migliore, come quando aveva collaborato con Massimo Troisi, un altro compaesano dal cuore malato che, con la sua comicità fragile, cercava di affrancarsi dall’immagine stereotipata del napoletano che resta o fugge solo per necessità e non per scelta.

D’altra parte anche il nostro mondo era cambiato. In piena era Bassolino, la città girava le spalle a Bagnoli e scopriva la sua nuova Gomorra. Alcuni suoi figli si erano messi sulle tracce di una nuova emigrazione, più intellettuale, che rimpiazzava quella delle braccia e delle valigie di cartone. Altri andavano invece raccogliendo veleni da tutta Italia per seppellirli sotto casa propria, infuocando la stessa terra che calpestavano.

Funerali di Pino Daniele in piazza Plebiscito a Napoli (foto di Biagio Ippolito )

Funerali di Pino Daniele in piazza Plebiscito a Napoli (foto di Biagio Ippolito )

Con Annamaria, Ciro, Marco, il dialogo era continuato su un piano più virtuale, ciascuno testimone del proprio cruccio e di nuove strategie di resistenza da una diversa città nel mondo.

Eppure, sono sempre stata grata a Pino Daniele, come a un amico che ti ha insegnato la sintassi dei sentimenti e che non si dimentica sebbene le proprie strade si siano allontanate.

E in fondo sono contenta che lui sia andato fino in fondo alla sua, come aveva pronosticato in una vecchia intervista al regista Salvatore Piscicelli: «Se non ho più niente da dire – intendo come parola, perché musicalmente avrò sempre da dire – allora cambierò la mia vita totalmente. Perché non canterò più. Infatti io non sono nato come cantante, sono nato come uno che doveva suonare».

In quegli anni e nei successivi Pinuccio aveva conquistato nuovi e più vasti pubblici. E un po’ mi ha impressionato vederli radunati tutti insieme la sera del 6 gennaio, per una veglia improvvisata, e anche quella successiva, per il suo ultimo funerale in piazza del Plebiscito. Oltre centomila persone, ciascuna con un motivo diverso per commuoversi per la sua morte. Generazioni di padri, figli e nipoti unite da un silenzio surreale che, sebbene per poche ore, ha tenuto al riparo dagli ennesimi «discorsi intellettuali senza onestà» sugli eccessi di Napoli e dei napoletani.

A me, a Stefania, a Monica, alle mie sorelle «è passata la vita nel cuore» come ha detto Adriana: trenta anni di storia, personale e collettiva, attraversate da tutte le speranze e le illusioni di “rinascimenti” possibili. E bene ha fatto Giggino, ennesimo sindaco di Napoli che si ostina a dire di voler cambiare le cose, a non prendere la parola quella sera dal palco in piazza del Plebiscito e limitarsi a piangere amare lagrime anche lui nella «notte che se ne va».

Per giorni, per spiegare il mio gesto impulsivo di partire da Milano per Napoli con mio figlio, appena saputo della morte di Pino Daniele, l’ho definito una “pazzeria”, di cui un po’ mi vergognavo.

Ancora oggi ho un certo pudore a descriverlo per quello che è stato, invece, un moto dell’anima, uno spostamento del cuore, la reazione fatale alla «alluvione» che aveva invaso il mio e il nostro presente.

14 thoughts on “Pinuccio, che Dio ti benedica

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    • grazie a te Ale, tra l’altro nell’articolo c’è tanto tua mamma e i tempi che frequentavo la vs casa ….. spero di averle almeno in piccola parte restituito l’emozione per quei pomeriggi passati a chiacchierare con lei e con tutti voi ….

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  2. riporto alcuni commenti ricevuti da varie persone, ringraziandole:
    “Ricordo che con Pino molti di noi sono entrati in contatto con la musica con la M maiuscola. Avevo un mangianastri che con i nostri nastri si mangiava pure la musica. Poi papà, che all’epoca lavorava a Glasgow, mi portò il walkieman e allora Terra mia diventò un’altra cosa, sembrava che Pino ce l’avessi in tasca!!” (Cicci)
    “Bello! C’è una nota di tristezza composta, tipica dei napoletani” (Vincenzo)
    “Esprime sentimenti che sento miei! Bellissimo articolo, grande Pino” (Maurizio)
    “Scritto veramente bene. Tocca con delicatezza le corde emotive del ricordo facendoli rivivere con quel giusto patos i ricordi, che, ahimé, sono rlegati ad una disgrazia!” (Gioacchino)
    “Bello! Forse troppo sul versante sentimentale nostalgico, però parlando di un defunto è corretto, Pino è stato parte della nostra storia” (Gaetano)
    “un po’ di verità!” (Silvia)

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  3. Grazie Alba,
    interessantissimo e intenso il tuo articolo su Pino. Mi viene molta voglia di approfondire le implicazioni musicali e l’evoluzione del “Neapolitan power”( che mescolava tradizione artistica campana con rock, blues, funky e jazz)..e .le sue connessioni attuali con con la world music…Enzo Avitabile poi mi piace moltissimo, baci e a presto Elisabetta

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