di Stéphane Hessel*
Chi comanda, chi decide? Non è sempre facile distinguere fra le tante correnti che ci governano. Non abbiamo più a che fare con una piccola élite della quale comprendiamo chiaramente gli intrighi. Il nostro è un mondo vasto. Del quale intuiamo la non indipendenza. Viviamo in un contesto d’interconnettività senza precedenti. Ma in questo nostro mondo esistono cose intollerabili. Per accorgersene occorre affinare lo sguardo, scavare. Ai giovani io dico: cercate e troverete. L’indifferenza è il peggiore di tutti gli atteggiamenti, dire: «Io che ci posso fare, mi arrangio». Comportandoci in questo modo, perdiamo una delle componenti essenziali dell’umano. Una delle sue qualità indispensabili: la capacità di indignarsi e l’impegno che ne consegue.
Possiamo già individuare due nuove grandi sfide:
- L’immenso divario, in continua crescita, fra molto poveri e molto ricchi. Una novità del XX e XXI secolo. Nel mondo di oggi i molto poveri guadagnano appena due dollari al giorno. Non possiamo lasciare che questo divario si accentui ulteriormente. E questa constatazione deve bastare a stimolare l’impegno.
- I diritti dell’uomo e lo stato del pianeta. Dopo la Liberazione ho avuto la fortuna di partecipare alla stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, a Parigi, al Palais de Chaillot. È in qualità di capogabinetto di Henri Laugier, segretario generale aggiunto dell’Onu, e di segretario della Commissione dei Diritti dell’Uomo che mi sono trovato, con altri, a collaborare alla stesura di questa Dichiarazione. Né posso dimenticare il ruolo, nella sua elaborazione, di René Cassin, commissario nazionale alla Giustizia e all’Istruzione pubblica del Governo della Francia libera, a Londra, nel 1941, e premio Nobel per la pace nel 1968; o quello che rivestì Pierre Mendès France in seno al consiglio economico e sociale, cui venivano sottoposti i testi da noi elaborati, prima di passare al vaglio della Terza commissione dell’assemblea generale, competente per le questioni sociali, umanitarie e culturali. Quest’ultima, all’epoca, era composta dai cinquantaquattro Stati membri delle Nazioni Unite, e io avevo la responsabilità della segreteria. È a René Cassin che dobbiamo il termine diritti «universali», e non «internazionali», come proponevano i nostri amici anglosassoni. Perché questa è la scommessa all’uscita dalla seconda guerra mondiale: emanciparsi dalle minacce che il totalitarismo ha fatto pesare sull’umanità. Per emanciparsene, occorre assicurarsi che, questi diritti universali, gli Stati membri dell’Onu si impegnino a rispettarli. È un modo per eludere il principio di piena sovranità, cui uno Stato può appellarsi quando si commettono dei crimini contro l’umanità sul suo territorio. È il caso di Hitler, che si considerava padrone in casa propria nonché autorizzato a mettere in atto un genocidio.

Eleanor Roosevelt (New York 1884 – 1962). Sylvie Crossman, nella postafazione, ricorda che tra i 12 membri della commisione «incaricata di elaborare quella che diventerà la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo» faceva parte anche lei: «Eleanor Rosevelt, vedova del presidente Rosevelt (deceduto nel 1945) e femminista militante».
Questa Dichiarazione Universale deve molto all’universale sentimento di repulsione nei confronti di nazismo, fascismo e totalitarismo, come pure, per nostro tramite, allo spirito della Resistenza. Quanto a me, ero consapevole che occorreva sbrigarsi, e non lasciarsi ingannare dall’ipocrisia che permeava la proclamata adesione da parte dei vincitori a valori che non tutti intendevano promuovere lealmente, ma che noi cercavamo di imporre.
Non resisto alla tentazione di citare l’articolo 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: «Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza»; e l’articolo 22: «Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale e in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua personalità». Sebbene questo documento abbia valore dichiarativo, e non giuridico, dal 1948 ha svolto un ruolo determinante; abbiamo visto popoli colonizzati impugnarlo nella lotta per l’indipendenza, e ha fecondato gli animi nella loro battaglia per la libertà.
(…)
Ai giovani dico: guardatevi attorno, e troverete gli argomenti che giustificano la vostra indignazione, il trattamento riservato agli immigrati, ai sans papiers, ai rom. Troverete situazioni concrete che vi indurranno a intraprendere un’azione civile risoluta.
Cercate e troverete!
* Conosco le parole di Hessel quasi a memoria. Ho letto il suo pamphlet “Indignatevi!” appena è stato pubblicato in Italia (add editore, 2011, titolo originale Indignez-vous!) e a più riprese le ho declamate in occasioni private e pubbliche. Aveva 93 anni, l’ex diplomatico francese – «È un po’ l’ultima tappa» -, quando decise che la propria vita non poteva chiudersi senza un appello alla mobilitazione, mobilitazione pacifica, delle giovani generazioni. Il suo testo è di appena 30 pagine, seguito da note, da una postfazione dell’editore francese, e – articolo per articolo – dall’intera Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. In tutto 60 pagine: vere, autentiche, impregnate delle cicatrici che gli avevano lasciato gli anni delle torture e segregazioni naziste. Hessel chiude il suo testamento ammonendo che la minaccia della «barbarie fascista non è del tutto scomparsa» e punta l’indice contro gli organi di informazione (francesi, chissà cosa vrebbe scritto se fosse vissuto in Italia).
«No, questa minaccia non è del tutto scomparsa. E allora, continuiamo a invocare “una vera e propria insurrezione pacifica contro i mass media, che ai nostri giovani come unico orizzonte propongono il consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti”.
A quelli e quelle che faranno il XXI secolo, diciamo con affetto:
CREARE È RESISTERE.
RESISTERE È CREARE».