di Adele Colacino

Scene di vita familiare: Adele Colacino a tavola con il marito Arturo nella casa al mare (foto di Paola Ciccioli)
La situazione mi sfuggiva di mano. Al mattino alzarmi dal letto costava già fatica. Mi ritrovavo sempre più spesso seduta o allungata sul divano. Mi restava comunque il senso vigile di rendermene conto. Continuavo a sentirmi ripetere che quel protocollo di farmaci portava con sé il rischio della depressione e alcuni medici continuavano a evidenziarmelo. Testardamente e a ragione insistevo: «Non sono depressa, sono stanca!».
Me la mandò a casa qualcuno, informandomi brevemente sulla sua correttezza e sulla sua “anomalia” familiare.
Ascoltai senza commentare quella soap opera di quartiere periferico in una città di provincia che superava di gran lunga ogni fantasia hollywoodiana.
Era veloce, puntuale, s’impadronì del ritmo della casa, in poco tempo diventò memoria visiva di ogni oggetto casalingo, di ogni scadenza, scrivendo e parlando le sfuggiva qualche strafalcione, ma conosceva perfettamente il costo di ogni detersivo e calcolava prima della mia calcolatrice il costo di ogni frazione di tempo.
Aveva un bambino, era quanto sapevo di lei, oltre ai suoi dati anagrafici .
Sempre allegra e sorridente non frequentava le parrocchie, ma se ne andava dandomi appuntamento alla prossima volta: «Se vuole Dio».
Un giorno in controluce, mentre lavava i vetri di una finestra, mi accorsi che aveva la pancia gonfia, troppo gonfia sotto la maglia larga che portava da qualche tempo e che nascondeva la sua seconda gravidanza.

“Agostina, L’italienne”, Jean-Baptiste Camille Corot (Parigi 1796 – Ville-d’Avray 1875). Dello stesso pittore anche l’opera che segue
Era capace di canticchiare tutto il tempo, ma ammutoliva quando cercavo di capire che vita avesse in una storia che il quartiere conosceva e mormorava. Rispondeva sempre a monosillabi quando il suo cellulare squillava, cambiava tono di voce e timbro.
Nacque un bambino bellissimo e bellissimo crebbe fino a che un terribile male se lo portò via a dieci anni.
Durò molti mesi il calvario e lei, da sola, gli rimase accanto sempre e noi restammo accanto a lei, in ogni modo possibile.
Trasformò poi il dolore atroce e disumano nel culto del sepolcro, nelle ricorrenze vissute accanto alla tomba che diventava tavolo per la torta con le candeline per i compleanni, albero di Natale con le luci e i doni, calza della Befana, uovo di Pasqua gigante, fiori freschi tutti i giorni.
Capita sempre più spesso che le famiglie si rompano e poi si ricompattino diversamente, alcuni vivono l’esperienza in maniera devastante altri attraversano la perdita, l’abbandono, cercando surrogati.
Le scuole di ballo e il valzer o il latino-americano come antibiotico alla solitudine e alla rabbia; i viaggi in giro per l’Italia o il mondo – carovane di donne sole che si raccontano del viaggio precedente, interi atlanti geografici attraversati come mosche sulla cartina, spesso senza imparare nulla sul Paese visitato per tragitti sempre uguali, attaccati a una guida più o meno capace di trasmettere conoscenze e rispetto per i costumi e la cultura altra.
Lei semplicemente è sopravvissuta portando il sepolcro nel quotidiano, inserendolo nel suo circuito come tappa non più di dolore, ma di luce e di ombre quotidiane.
Credo che nel profondo di ogni azione umana si annidi l’egoismo. Sento parlare sempre dell’amore che muove le cose e fa girare il mondo, ho sempre avuto dubbio che la medaglia abbia sempre due facce, dipende a quale delle due si vuole attribuire “capo” o “croce”, per me “amore” o “egoismo”.
Per amore si tace, si parla, ci si arrende, si lotta, si semina, si fa deserto. E forse non si fanno le stesse cose per egoismo?
L’avevo accolta, ponendomi controcorrente, pensandola vittima di una sopraffazione patita all’interno del suo nucleo, come donna, come madre. L’avevo difesa con sentimento solidale, l’avevo tutelata per uno spicchio di futuro garantito, avevo investito energie, spesso garantendo per lei, c’era una sola REGOLA da rispettare e eravamo irrimediabilmente d’accordo: la sua dignità prima di tutto.
Una sera lei, consapevolmente, ha infranto la regola. Ha scelto ancora le botte, la sopraffazione, il silenzio, il rischio. E io non avevo più parole, né energie , né certezze.
Ho chiuso la porta. Ho perso ancora una volta.
Adele, non mi pare sia stata tu “a perdere”…
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Le hai offerto una possibilità di riscatto, ma probabilmente non le interessava…Capita alle volte di sentirsi in colpa per non aver, forse, fatto abbastanza. Ma credici comunque e continua ad agire come sempre, come sai fare. 🙂
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Tenendo sempre a mente che «le vie dell’inferno sono lastricate da buone intenzioni» (e sul punto vale la pena di ritornare, altroché), non so se avete visto “Boyhood”, il film al quale Richard Linklater ha lavorato 12 anni ed è in programmazione nelle sale in questo periodo. Patricia Arquette interpreta il ruolo di una donna che cresce, e con lei i suoi figli, passando da uomo sbagliato a uomo alcolizzato, rimboccandosi di continuo le maniche, studiando fino ad arrivare alla docenza universitaria. Mi ha particolarmente colpito il fatto che – ed è il solito dettaglio che, se non tutto, dice molto – il riconoscimento di quel che lei è e il valore di ciò che ha fatto le arriva da uno sconosciuto, un operaio di lingua spagnola, presumibilmente clandestino, che un giorno trova una soluzione intelligente per ripararle una conduttura dell’acqua danneggiata. Lei lo osserva, lo ascolta e gli dice che sta sprecando la propria ingelligenza, che dovrebbe coltivarla e metterla a frutto nella vita. Non aggiungo altro, altrimenti vi rovino – nel caso – la sorpresa. Ecco, secondo me si può aiutare soltanto chi non aspetta altro che un’occasione per trovare coraggio e credere in se stesso. Il resto, quasi sempre, è materia delle «vie lastricate» di cui sopra.
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Ho ragionato per anni sulla situazione, pur sempre nel rispetto delle persone coinvolte. Il rispetto a volte è costituito anche soltanto di silenzio totale… Se non ci sono vie per comunicare anche dopo averle tentate tutte, tutte quelle che la tua mappa mentale ti offre, cosa rimane da fare? Stai lontano e che sia lo spazio ed il silenzio a sottolineare la nostra incapacità di compromesso. Cosa altro si può fare con adulti estranei? Lei era la sola tangibile per me, a volte lieta a volte sofferente. Ed il nodo non era trattabile, non era mio diritto non era mia competenza. Aggiravo l’ostacolo per quanto possibile, mettendo sul tavolo possibilità di vite diverse. Non ho perso perché non ho vinto. Non c’era un traguardo per me da raggiungere. Non riesco a spiegare bene perché non desidero dare troppa trasparenza alla storia ch’è molto più complicata. Le cronache tristemente attuali, mi chiedo, avranno pieghe recondite nelle quali nessuno può davvero penetrare? Grazie a tutte.
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Ce le hanno, ce le hanno, «le pieghe recondite…»
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