Testo e foto di Adele Colacino
È una stagione strana: di solito ci si lamenta del caldo, il rumore dei condizionatori e lo sbatacchiare dei cancelli durante la notte entrano nelle camere da letto attraverso le imposte aperte alla luna, alle cicale e ai grilli che suonano vicino, mentre da più lontano arriva la musica delle discoteche aperte fino all’alba.
Anche a luglio inoltrato, al mattino Manuel e Rocco hanno aperto tutti gli ombrelloni, sistemato le sdraio e i lettini, il lido è rimasto quasi vuoto, animandosi un po’ al sabato e alla domenica. Sotto i pochi ombrelloni occupati, durante la settimana sono quasi tutti nonni con i nipotini.
Il mare è trasparente, si vedono i ciottoli del fondo e i pesciolini che vengono a pizzicare le gambe come a reclamare le briciole che i bambini lasciano cadere per vederli arrivare.
La mia borsa di cotonina si gonfia man mano che preparo il mio bagaglio per scendere in spiaggia. Un notes e la penna, gli occhiali da vicino, un libro, l’acqua, la crema protezione 50, gli spiccioli, il cellulare più per fotografare che per parlarci. Un corredo pesante da portare sulla spalla per circa due ore buone da trascorrere sulla spiaggia.
Ho concordato con Raìs che mi racconterà le trentadue estati che ha trascorso andando su e giù per questo arenile calabrese, lui afgano scappato dalle guerre con la sua borsa da “gioielliere” e i suoi occhi di luce fredda tagliente. Arrivo sempre troppo tardi, lui ha già iniziato il suo giro e non può fermarsi a parlare con me. Sistemo le mie cose e rifletto sulle notizie ascoltate alla radio prima di uscire.
“Le riforme”, termine ormai abusato, masticato nelle bocche di tutti, le riforme auspicate, necessarie, impellenti oramai elemento vitale per riprendere in mano una vita economica e civile, materiale di scambio per ottenere o recuperare prestigio internazionale. Garantismi, assoluzioni, dissensi interni, ricompattamento di fazioni che ieri s’ingiuriavano e oggi potrebbero ritrovare l’antico cieco amore. Come prima, come sempre.
E tra una notizia e l’altra di “politica interna” voci neutre di speaker annunciano ancora numeri spaventosi di morti a Gaza, di morti nelle stive per mancanza di aria da respirare. Bambini, tanti, che non avevano il libro delle vacanze come problema, ma la fame, la speranza di avere un giorno ancora sul quale aprire gli occhi. Attaccato alla ringhiera del “pontino” sul quale passa il treno, stamattina c’era un grande cartello bianco con sopra scritto PALESTINA… qualcosa.
Era già strappato e, lacerato, pendeva al vento. Non c’era ieri. Mi sono fermata, ho cercato il cellulare nella mia borsa di cotonina e l’ho fotografato. Cammino e penso allo sforzo costato per compattare quei fogli di carta, per attaccarlo su quella ringhiera, mentre sui muri sottostanti i manifesti giganti e colorati, ben tesi e incollati invitano ai concerti degli artisti in tournée, alle discoteche dei dintorni.
L’ho fotografato per donargli vita più lunga, perché la pioggia e il vento del pomeriggio lo avrebbero sicuramente lacerato.
L’ho fotografato perché chiunque lo abbia legato su quella ringhiera merita un plauso, perché mi ha dato un ennesimo appiglio per parlare con i miei vicini di ombrellone di questa strage ricorrente nella storia moderna.
L’ho fotografato e tendo a mandarne in giro l’immagine per dare uno schiaffo morale alla signora pingue e bionda che si vanta di essere la presidente di una sezione Unicef e dichiara di non poter prendere alcuna posizione, di non poter esprimere una opinione su questa guerra.
AGGIORNATO IL 10 DICEMBRE 2017
Non si deve prendere posizione, infatti. Se si sostiene uno dei due contendenti non si ragiona e non si va avanti. Entrambi hanno torti e ragioni. Solo le persone di buona volontà che vogliono la pace devono imporre il loro punto di vista. Il resto è canizza.
"Mi piace""Mi piace"