«L’apparizione di un cammelliere nel deserto afghano. E le avventure che gli ho fatto vivere»

Testo e foto di Lucia Vastano 

Lucia, cammelliere

Il cammelliere con i dromedari nel deserto afghano. La sua visione ha ispirato un romanzo a Lucia Vastano

Nella vita accade spesso che le cose importanti ci succedano per caso, proprio quando non le andiamo a cercare. Non dico che quell’incontro durato qualche manciata di minuti in mezzo al deserto afghano abbia realmente cambiato la mia vita, ma di fatto qualche conseguenza l’ha provocata. Sicuramente più di innumerevoli inutili ore trascorse con conoscenti, colleghi, intellettuali veri o presunti e purtroppo anche amici. Sterili, come dei muli. Le ore, intendo.

Da quell’incontro fugace è invece nato Un cammelliere a Manhattan, un mio romanzo a cui sono particolarmente affezionata.

«Good things happen to the right person at the right time», mi ripeteva sempre la mia guida nepalese Tulsi Ram Baral durante il trekking attorno all’Annapurna tanti e tanti anni fa. In genere la “buona cosa” non era che una cascatella d’acqua fresca che incontravamo dopo una ripida salita sotto il sole impietoso.

Lucia, presentazione con Ettore Mo

Lucia Vastano con Ettore Mo e Maso Notarianni durante una presentazione del suo romanzo a Milano (foto di Angelo Mereu)

Mi fa piacere raccontare di quella «good thing» che io, «the right person», ho acchiappato per caso in quel «right time» e di come invece alla mia amica giapponese, Kumiko Tsushihashi, quell’attimo e quell’incontro siano sfuggiti per sempre. E ancora le dispiace. Perché, diciamolo, non capita tutti i giorni di incontrare nel bel mezzo del nulla un ragazzo bello e affascinate come un attore di Hollywood. Solo che lui (non so nemmeno il suo nome) attore non era e non stava recitando nei panni di un cammelliere. Lui lo era realmente, un vero cammelliere kuchi, un nomade che vive portando al pascolo le sue bestie nel deserto di uno degli angoli più tormentati del mondo.

Quella era stata una giornata pesante, ma anche molto interessante. Di quelle che aprono gli occhi su tante cose di come gira il mondo. Era la fine di luglio del 2004 e l’Afghanistan si era da circa tre anni liberato dai talebani, ma ancora non era chiaro se e come si sarebbe avviato sulla via della democrazia. Va detto che ancora oggi non si sa bene che cosa sia cambiato da allora in questo affascinante Paese, se non qualche ricchezza e qualche apparente libertà in più. Ma questo è un altro discorso.

Avevamo passato parte del pomeriggio in compagnia di un potente capo tribale, nonno di Sanai, un amico afghano conosciuto in un precedente viaggio nel periodo talebano. Sanai era poi stato ospite a Milano di mia madre e mio in un periodo particolarmente caldo per l’Afghanistan e per il mondo intero, settembre del 2001, proprio nei giorni dell’attentato alle Torri Gemelle a Manhattan.

L’ospitalità che avevamo offerto a quel ragazzo in difficoltà mi ha fatto poi accogliere non come una semplice ospite straniera, ma come un vero e proprio membro della sua famiglia, da proteggere e da aiutare. E su queste cose gli afghani non scherzano: il rispetto e la dedizione non possono venire mai meno, nemmeno a distanza di anni. Sarebbe un tradimento, una vergogna per il clan.

Lucia, vecchio capo tribalecon kalashnikov

Il capo tribale di Ghazni con il kalashnikov appoggiato sul letto

Quel giorno a Ghazni infuriava una tempesta di sabbia e Kumiko e io avevamo aspettato che passasse proprio nella casa di arenaria rossa del potente nonno di Sanai. Ci erano stati offerti dell’anguria fresca, del caldo chiai verde e dolcetti vari. E poi tante e tante parole per spiegarci la situazione politica afghana.

A prima vista a me sembrava tutto tranquillo, e avevo interpretato la scorta armata che ci era stata affidata dalla “mia famiglia” come un modo originale per impressionare due straniere. In realtà il nonno ci spiegò: c’era una strana atmosfera a Ghazni, c’erano strani movimenti di forestieri nella zona. Persone pericolose.

«Qualcosa bolle in pentola, non so cosa, ma presto qualcosa succederà», si assicurò che avessi capito bene il nonno. Le nostre guardie del corpo servivano a questo: far sapere a tutti che le due straniere erano sotto la protezione del capo tribale e anche soltanto infastidirle significava cercare dei guai seri.

Passata la tempesta Kumiko e io girammo tranquillamente (sempre con la nostra scorta armata) per la città visitando, oltre la cittadella e i minareti, anche una bella moschea in cima ad una scalinata lungo la quale stavano flirtando ragazzine, senza burqa, con i loro compagni di scuola.

Quel giorno non successe effettivamente niente, ma soltanto una manciata di ore dopo, quella stessa moschea è stata teatro di un mortale attentato terroristico. Sei persone sono morte, due delle quali dipendenti delle Nazioni Unite. Loro evidentemente avevano le protezioni sbagliate.

Lucia, amica giapponese

Kumiko Tsushihashi, l’amica e compagna di viaggio di Lucia Vastano, nella valle dell’Hunza, in Pakistan. La foto è stata scattata lungo la Karakorum Highway, sulla strada del ritorno verso Islamabad

Il progetto mio e di Kumiko era di arrivare via terra a Herat e poi procedere, sempre via terra, per l’Iran, il Turkmenistan, l’Uzbekistan, il Kirghizistan, lo Xinjiang e scendendo lungo la Karakorum Highway tornare in Pakistan, da dove eravamo partite e dove avremo poi preso l’aereo per l’Europa.

«Fino a Kandahar non ci sono problemi, ma da lì in avanti proseguire lungo la strada per Herat è molto pericoloso. Avrete bisogno di più macchine di scorta con uomini armati. Ma quasi sicuramente ci sarà da sparare», mi spiegò il nonno.

Ma è da stupidi rischiare la vita. Meglio prendere l’aereo per Herat. Il piccolo e unico balzello via aerea in tutto il nostro viaggio. Kumiko ed io decidemmo pertanto di tornare a Kabul.

Da qualche mese la strada era stata asfaltata e così il viaggio non era più lungo e difficoltoso come una volta. Meglio così. Kumi ed io avevamo voglia di tornare al più presto nella capitale afghana per farci una bella doccia a toglierci i chili di polvere che avevamo addosso e ci seccavano la pelle. Per fortuna il nostro autista spingeva sull’acceleratore e la strada era senza traffico. Poi, inaspettatamente, ci fermammo.

«Ci sono i cammelli, se vuoi puoi fare delle foto», mi disse il cugino di Sanai che ci aveva preso in consegna.

Per gentilezza scesi dalla macchina. Non mi interessava fotografare i soliti cammelli in mezzo al solito deserto. Ma in fondo non avrei perso molto tempo a mostrare interesse per “qualcosa di locale”. Scattai alcune foto senza tanta convinzione e mi preparai a risalire in macchina.

Ma il cugino no era ancora soddisfatto. «C’è anche il cammelliere, appena poco oltre la collina».

Di mala voglia mi sono spinta fin oltre la collina per accontentare il mio ospite.

Poi ecco la visione. E’ apparso lui, quel ragazzo bello come il sole. Una visione? Un miraggio? Un sogno?

«Salaam alekum», mi ha detto aprendo il volto con un sorriso. 32 denti bianchissimi.

«Al aleikum Salaam», ho risposto concentrandomi però sulla mia macchina fotografica. «Non ci credo, non ci credo», continuavo a ripetermi. «Non è possibile una bellezza del genere proprio qui, in mezzo al niente. Un vero spreco».

Lucia, cammelliere primo piano

Un primo piano del bellissimo cammelliere: le amiche chiedono a Lucia di continuare a narrare, senza mai stancarsi, ogni dettaglio del suo magico incontro nel deserto afghano

E mentre scattavo un’infinità di domande mi riempivano la testa. In ordine sparso: chissà se sa di essere così bello, chissà se lo vedesse un regista americano, gli piacerà stare qua da solo in compagnia dei cammelli, ma che diavolo di sogni sta sognando, ha una ragazza che lo ama, è mai stato altrove, gli piacerebbe viaggiare?

La mia macchina fotografica ha registrato tutto quello che gli occhi possono vedere: il suo sorriso, il suo sguardo profondo, i suoi cammelli, le sue scarpe con le suole rotte, i suoi vestiti logori e pieni di polvere (come e più dei miei), il suo turbante. Ma in un certo senso la mia macchina ha anche registrato i miei pensieri perché, ogni volta che guardo quelle fotografie mi ritornano alla mente le domande rimaste senza risposta che avevano riempito la mia testa.

Il cugino di Sanai cercava in continuazione di intromettersi nelle foto al fianco del cammelliere. «Pussa via!», avrei voluto dirgli. «Tu non c’entri in questa tela d’autore». Poi mi ha richiamato all’ordine.

«Andiamo», mi ha inviato a seguirlo verso la jeep. Anche lui aveva polvere da sciogliere sotto la doccia.

Il cammelliere Kuchi si è allontanato. Mi ha girato le spalle ed è tornato ad occuparsi delle sue bestie. Nel tornare sulla jeep ho continuato a seguirlo con gli scatti.

«Kumi, non sai che cosa ti sei persa».

Le ho mostrato le foto sul display della digitale. Lei si è voltata. Ma la nostra jeep era già altrove.

Quando sono tornata a Milano, la mia agente letteraria mi ha chiesto di fare un romanzo dal mio viaggio in Asia Centrale. Per alcuni mesi, presa da altre occupazioni, non ho scritto neanche una riga. Poi, durante le vacanze di Natale, riguardando le foto prese in quel fuggevole incontro, mi sono tornate alla mente le domande che non avranno mai risposta. E il romanzo è scivolato giù senza fatica dalla tastiera del computer.

Lucia, copertina libro

Le domande che non avevano avuto risposta nel mondo della realtà le hanno avute in quello dell’immaginazione. Per chi ha la fortuna di scrivere niente è impossibile. Così quel ragazzo di cui non so praticamente nulla è diventato il personaggio del mio libro. Ora so quali erano le sue ambizioni, so che mentre parlava con me, una donna venuta da lontano, stava sognando di viaggiare per il mondo. So che allora ancora non sapeva di amare la sua promessa sposa, alla quale preferiva la poesia, un’altra ragazza irraggiungibile e persino Jamal, il suo cammello preferito. So che presto sarebbe partito per scoprire, come fece Marco Polo alla sua età, Paesi lontani. So che avrebbe vissuto avventure pericolose, ma importanti per diventare adulto. So tutto il bene e il male che gli è successo.

Lo so perché, a differenza di Kumi, io quel giorno di fine luglio ero la persona giusta, nel posto giusto al momento giusto perché le succedesse una cosa buona. Una cosa buona come una cascatella d’acqua fresca e pulita dopo una salita sotto il sole. Così è nato Un cammelliere a Manhattan. Un romanzo bellissimo, lasciatemelo dire (un po’ di pubblicità non fa male a nessuno, anche perché lo potete acquistare in formato ebook su Amazon per pochi soldi).

Non è stato poi male ritardare una doccia a Kabul. Ora io ho però un altro sogno che chissà mai se riuscirò a realizzare: ritrovare quel cammelliere e sapere come è stata da allora, realmente, la sua vita. Spero ancora più bella di quella che io gli ho fatto vivere.

 

2 thoughts on “«L’apparizione di un cammelliere nel deserto afghano. E le avventure che gli ho fatto vivere»

  1. cara Lucia, anche io, dopo aver letto il tuo breve resoconto di questo incontro, sarei curiosa di sapere che vita ha realmente fatto il cammelliere Kuchi, al di là dei tuoi pensieri e della tua fantasia …

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    • Un giorno mi piacerebbe davvero partire per andare alla sua ricerca e non è detto che prima o poi non lo faccia. Per il momento dobbiamo accontentarci di credere che anche lui sia riuscito a realizzare i suoi sogni, qualsiasi essi siano stati. Forse apparentemente più umili di quelli che io ho immaginato per lui. Ma questa in fin dei conti è soltanto una mia deformazione professionale. Auguro semplicemente che lui abbia trovato la sua strada verso la felicità, o meglio la serenità, anche se questa non l’ha portato molto lontano da quel magico deserto afghano. Quasi sicuramente si sarà sposato con una ragazza del suo clan ed avrà avuto dei figli. E forse loro sì che una volta diventati grandi diventeranno viaggiatori del mondo. Chissà…
      Spero davvero un giorno di poterti raccontare la sua storia.

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