di Angela Giannitrapani
Cosa vorrà dire per una donna compiere cento anni?
Me lo chiedo continuamente lungo tutto il viaggio: in volo, sull’aereo che mi porta a Napoli. Mi distraggo appena un po’ dalla domanda sulla navetta che collega Capodichino con la città. Mi viene incontro una breve periferia, fatta di sopraelevate e raccordi autostradali che, presto, lambiscono edifici e condomini nati là dove una curva di cemento ha lasciato uno spiazzo di terreno o lo sovrasta col suo carico di traffico. Poi, troppo presto per essere pronti, la vera cinta della città che, tutto sommato, periferia non è, visto che si arriva alla stazione centrale dopo un paio di chilometri di vecchie case annerite, balconi stretti e arrugginiti ma con l’immancabile vaso di piantine della miseria o nastrino ricadente. Corso Garibaldi, Porta Capuana, il retro del tribunale e la stazione mi vengono incontro, mentre ancora aspetto un’anticamera che mi annunci la città.
Piazza Garibaldi è otturata dai grandi lavori che la restituiranno ai passanti sotto nuovo aspetto non sappiamo quando. Percorrendo corridoi, ritagliati da transenne, raggiungo la stazione e mi inabisso al piano di sotto per prendere uno di quei treni che vengono chiamati della linea Circumvesuviana.
Alcuni arrivano fino a Sorrento, serpeggiando tra paesi storici come Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata, ma anche nuclei nati con l’edilizia della fine degli anni 1960, inizi ’70, alle falde del Vesuvio. Una piana a rischio di inondazione lavica ma, proprio per questo, estremamente fertile. Oggi, solo a rischio.
La valle è disseminata di condomini immacolati, alcuni con ampi cortili o giardini interni che si allargano appoggiandosi, schiena contro schiena, a fatiscenti ville settecentesche, vestigia della villeggiatura dell’antica nobiltà partenopea e non. La maggioranza delle quali, abbandonate, ricadono tristemente su se stesse e sugli occhi del passante estraneo. Solo qualcuna, all’improvviso, fa mostra di sé, in angoli incongruenti con quanto la circonda. E mi viene spontaneo chiedermi: cosa ci fa questo gioiello ottocentesco in mezzo alle catapecchie o ai colossi condominiali? La domanda è fasulla, perché ribalta la realtà storica. Mi accorgo subito dello scarto della mia mente: quello è stato da sempre il suo posto. È il resto che è abusivo.
Allora torno ancora al mio primo dubbio: cosa proverà mai una donna che compie cento anni? Perché è da lei che sto andando. È mia zia, alla quale è evidente dal mio viaggio, sono molto legata. Si sentirà anche lei come queste fascinose ville, asserragliata da un mondo abusivo? Si sentirà sola? Estranea, su una terra che non riconosce più e che non la riconosce?
È nata nel 1914 e in questo 2014, dopo due guerre mondiali, l’eruzione del Vesuvio del 1944, la bomba atomica, un’Italia da ricostruire, tre figli di cui una nata durante la guerra, il giro del secolo e l’orlo del terzo millennio… Avrà le vertigini?
Il trenino sferraglia su binari vecchissimi, zeppo di umanità pigiata dalle incombenze quotidiane, dal bisogno, dai propri affari. Tutte le età, dalle facce fresche delle studentesse, ai visi ispidi di barbe incolte, a quelli delle donne dall’aria indaffarata. Alcuni parlottano, non il solito vociare, non si conoscono ma guardano insistentemente me, segno che mi riconoscono come non abituale passeggera di quei vagoni dondolanti, dalla falsa velocità.
Arrivo appena sudata da un maggio trionfante di sole, affronto a fatica le ripide scale, trascinando il bagaglio. Riaffioro in superficie e mi avvio al cancello di ferro battuto bianco. Individuo il suo balcone, è pieno di gerani rossi che sembrano ortensie. Li ama tanto. Suono, mi accolgono le figlie. Come sta? Dov’è? Nonostante abbia avuto sue notizie per telefono qualche ora prima, le due domande mi scappano irrequiete. «Non c’è male», mi dicono, «abbiamo fatto come ti ho detto, è la cosa migliore».
Eh, sì. Non è facile organizzare una festa di trenta persone per una centenaria. Reggerà la presenza di tutti, il loro vociare, l’emozione di vederle? E le lungaggini di un pranzo? Bisogna tutelarla dalle inondazioni delle feste e degli affetti, il corpo e il cuore hanno cent’anni.
Si è deciso che lei resterà nella sua poltroncina di vimini imbottita di cuscinoni, nell’angolo del soggiorno dove passa le sue solite giornate. Andremo a salutarla pochi alla volta, mangerà lì con qualcuno di noi che si darà il cambio, allontanandosi dalla grande tavola allestita a buffet. Poi, per la torta e lo spumante verrà in salotto a brindare con tutti. Mah, mi dico, chissà se ce la faremo.
Intanto entro a salutarla con l’emozione in gola. L’avevo vista due anni prima, ma due anni le hanno dato la maturità dei cento, questo è sicuro. Grido il suo nome e le confermo il mio. Certo che sei tu, mi dice, guardandomi con il capo inclinato di tre quarti e un occhio strizzato per mettermi a fuoco meglio. Già, i suoi occhi: celeste chiaro, come quelli di mio padre, come quelli delle loro madri, che erano sorelle. Mio padrenacque undici giorni dopo di lei, furono i primogeniti di una bella nidiata e sin da piccoli furono convinti di non essere gemelli per un soffio, per quegli undici giorni di differenza, ma si considerarono sempre quasi gemelli. Nessuno mai li convinse del contrario, né provarono a sottolineare che venivano da madri diverse. Era irrilevante.
Dunque, se mio padre fosse vivo, avrebbe compiuto cento anni a maggio. Mia zia ebbe altri due fratelli, mio padre restò figlio unico. Ma lei continuò a considerarlo il suo quasi gemello e lui considerò gli altri due come suoi fratelli. Quando nacquero le altre due cugine, da altri zii, furono accolte, protette, vezzeggiate e adottate come sorelle. Ed è così che li ho sempre percepiti, come dei veri zii, nonostante il grado di parentela suggerisca prozii, o pro cugini o cugini di secondo grado o chissà cosa.
La nidiata veniva accompagnata in visita dai nonni tutte le settimane, ma ciascuno era libero di volare da loro durante la settimana, quando voleva se l’età lo consentiva. E poi, uno dormiva a casa dell’altro, facevano il bagno in una stessa tinozza. E c’erano i compleanni, le feste comandate, i giochi inventati con un pezzo di legno, lo zucchero filato una volta l’anno e tutti, proprio tutti, sono passati dallo stesso Giardino d’Infanzia di Marsala, del quale una delle zie, la madre di mio padre, era la direttrice. Tutti, tranne mio padre, andarono via dal luogo dove nacquero ed ebbero la loro prima giovinezza. Mia zia a Napoli, gli altri altrove, fino a Bolzano. Lei lasciò la sua città a vent’anni, ma ancora oggi è in grado di illustrarne la planimetria con i nomi delle strade, i nomi di allora naturalmente, ma mi chiede quelli attuali.

Nella con il “quasi gemello” Silvio Giannitrapani a 5 anni nel giardino d’infanzia di Marsala (aprile 1919)
Conosce anche la disposizione delle tombe e delle cappelle gentilizie del cimitero e mi recita, senza saltare una parola, l’epigrafe della tomba della sua prima amica Bice, compagna di banco, morta all’età di nove anni. Naturalmente, da sempre mi tocca passare da lì a lasciarle la preghiera da parte sua, tutte le volte che vado al cimitero. Poi mi chiede se c’è ancora l’edicola sacra di fronte alla casa in cui nacque. Un palazzotto di fine seicento con il cortile di ciottoli incorniciato da un colonnato dall’equilibrio perfetto, dove saltellava con fratelli e cugini, ora è del Comune ed è teatro di eventi culturali. Sì, certo, le rispondo. La piccola edicola è ancora lì, protetta da un vetro. Fa un mezzo sorriso e parte con la recita impeccabile della scritta in un approssimativo italiano del ‘700 dell’indulgenza concessa dal vescovo Bartolomeo Castelli nel 1702.
Poi mi chiede per chi voto. Resto spiazzata, stranamente ero più a mio agio nel suo passato che nel mio presente. Vengo salvata dall’arrivo di un paio di suoi nipoti, miei cugini di qualche grado. Ci abbracciamo, riconoscendoci dopo anni di lontananza, poi ne arrivano altri che non ho mai incontrato, dei quali ho le foto di battesimo o della prima comunione. Li vedo maturi, con capelli brizzolati, uomini solidi, donne già nonne o single ancora convinte, che lottano tenaci nella mischia.
Da Bari a Bolzano riconosco i tratti e la genia della famiglia di mio padre. Dicono che le appartengo; mi sorprendo a ricordare episodi di quando loro avevano sette/otto anni, alcune cose vissute direttamente, altre raccontate dai nostri genitori. Ancor di più mi sorprende sapere che conoscono aneddoti della mia infanzia, anche coloro che incontro per la prima volta. Allora guardo ancora lei, mia zia. Appartiene a una generazione che ha raccontato, ha raccontato sempre e raccontando, lei, i suoi fratelli, i cugini, compreso mio padre, hanno tenuto insieme la famiglia, il senso della consanguineità, la partecipazione a fatti e scadenze di ciascuno e di tutti e li hanno trasmessi, senza saltare un giorno, attraverso due guerre, il giro del secolo e l’orlo del terzo millennio. Prima di loro lo avevano fatto i loro genitori.

La “fiuredda” di Marsala di cui la centenaria recita perfettamente la scritta in un approssimativo italiano del ‘700 (dall’archivio privato di Angela Giannitrapani e con la collaborazione del marito Giampiero Masi)
A me viene un senso di vertigine, come su un vuoto: non ho figli, con chi lo farò io? Passo davanti alla tomba di Bice almeno due volte all’anno, leggo l’epigrafe ma non sono in grado di recitarla a memoria e così anche l’indulgenza dell’edicola sacra, posta sul muro che fiancheggia il corso principale della mia città natale, Marsala. La guardo ancora e mi ripeto che ha cent’anni. La vedo metà sorridente e metà inquisitiva verso tutti noi, come a dire: allora cosa avete da raccontarmi? Stupitemi con qualcosa. Poi l’occhio mi cade sul tavolino-carrello che le sta sempre davanti. I suoi occhiali, una lente di ingrandimento, il libro di preghiere, il rosario, l’ultimo romanzo che sta leggendo e il cruciverba.
Due cose sono incrollabili in lei: la fede religiosa, basata su un rapporto molto personale e diretto col Padreterno, e la memoria. Ma non si può certo dire che le siano mancati la curiosità e l’amore per la vita. Della paura della morte me ne ha parlato una sola volta due anni fa. Oggi non è il caso. Continuano ad arrivare fiori, piante, composizioni lussureggianti. La casa ne è piena.
Sotto braccio alle figlie, con i suoi piedi copre la distanza dalla sua poltroncina al salotto: spegne le candeline sulla torta e alza il bicchiere, ringraziandoci del regalo che le abbiamo fatto con la nostra presenza. Mentre le facciamo corona, sento che lei coagula il sangue della nostra famiglia, assenti compresi. Compreso il figlio prediletto a cui è sopravvissuta.
Cambio, in quel momento, la mia domanda iniziale: cosa vogliono dire per me i cent’anni di mia zia?
Subito dopo comincia un pellegrinaggio annunciato ma per me inatteso. Vicini di casa, conoscenti del quartiere, amici di una vita. Il salone fiorito si riempie, non bastano le sedie, le tazzine di caffè, sulla tovaglia di pizzo un tripudio di dolci da offrire. Per ultima arriva una consigliera comunale con la targa di auguri del sindaco di Portici, il comune nel quale ora vive.
Lei è tornata nel suo angolino usuale e la processione di gente viene spezzata a coppie e piccoli gruppi, disciplinata in maniera ferrea dalle due figlie, che la curano e la seguiranno fino alla fine dei suoi giorni.
* Angela Giannitrani parteciperà giovedì 5 giugno (ore 18) all’incontro “Perché raccontare?”, organizzato alla Casa di vetro di Milano. Tutti i dettagli in “Oggi e dintorni”.
*AGGIORNATO IL 2 GIUGNO 2014