di Adele Colacino
La vecchia stampante scricchiolando mi restituisce i fogli A4 che le ho infilato in bocca bianchi e lisciati.
Ora sono pieni di parole colorate e annunci pubblicitari e pronti per il cestino della carta straccia, meno quel rettangolo in fondo già tratteggiato che servirà per l’imbarco.
Quando l’hostess di turno arriverà al banchetto la gente è già in coda da tempo, non bastano mai i sedili per tutti i passeggeri in partenza e la gente che migra al Nord è sempre tanta.
Sono anni che faccio lo stesso percorso e lo stesso gioco solitario di guardare il mio prossimo e cercare di indovinare il mestiere, la professione, lo stato d’animo. Si va nel Nord per curarsi, per trovare i figli che studiano, i nipotini che i figli crescono lontano quando hanno deciso ch’era meglio non tornare.
Per molti mesi la mascherina sul mio viso ha lasciato quasi sempre libero il posto accanto al mio, non fosse per il fatto che porto gli occhiali che si appannano con il respiro, la porterei sempre e potrei avere più spazio libero intorno a me anche in volo.
In pochissimi capivano che ero io quella fragile da proteggere dai germi altrui.
Non dovrò discutere con la kapò in giacca verde di turno perché qualche testa rossa irlandese ha deciso benevolmente che un marsupio o una borsetta a vedere la luce non avrebbero provocato rischi al volo della compagnia. Mi piace pensare che le decine e decine di mail inviate alla Ryanair abbiano fatto riflettere, chissà!
Torno a Pisa per il controllo della 88a settimana dall’inizio di una terapia sperimentale.
Non dovrei avere brutte sorprese anche se l’altra notte ho sognato che dovevo essere sottoposta al trapianto di fegato. L’ansia che sminuzzo e calpesto approfitta, evidentemente, di qualche ora di sonno profondo per farmi uno sberleffo.
Riuscirò a pigiare in pochi fogli e con le parole giuste quasi tutta una vita scarabocchiata da una malattia cronica? Man mano che passano gli anni le cose vissute perdono un po’ di colore, una grande gioia può diventare un sorriso che allarga le labbra, un grande dolore le stesse labbra le stringe un po’ nelle spalle.
Al mattino mentre scendevo dal letto si sono rotte le acque. Sapevo che sarebbe successo, ma quando succede e aspetti il primo figlio è sempre panico, credo.
Avevo deciso di partorire a Villa Mater, una clinica importante della mia città. Ci erano andate tutte le mie amiche. Un ambiente sereno e un primario/padrone/ ginecologo paterno e accogliente.
Ricordo ancora quella mattina, avevo perso le acque , ma non avevo forti dolori. Aspettavo dietro i vetri della finestra della camera in cui ero stata ricoverata, erano le otto di mattina e vedevo passare tutti i ragazzi che andavano a scuola. Avevo poco più di vent’anni e dentro mi chiedevo se non fosse stato meglio stare là fuori.
I ricordi del dopo sono frutto dei racconti degli altri, i miei si fermano a una sedia ginecologica a qualcuno che mi urla: spingi!
Un cesareo ci avrebbe salvati ed il mio tempo sarebbe stato più sano e meno doloroso.
Invece un forcipe mi strappò le carni, un tampone non arrestò la perdita del sangue, per fortuna avevo una camera tutta per me e mia madre si accorse che mi stavo dissanguando. Cercarono con urgenza di ricucirmi, ma si capiva che in quel posto ovattato e sereno non c’erano gli strumenti e le capacità di recuperare la mia vita. Il Primario/padrone si opponeva sia alle mie dimissioni che a cercare aiuto e allora mio marito e mio fratello mi presero con tutto il materasso e mi portarono al Pronto soccorso dell’ospedale cittadino.
Dondolavo in un mare di azzurro pacifico e senza dolore quando mi svegliai, giusto in tempo per sentire il primario del reparto, accorso in pigiama a ricucirmi, che diceva: «Chiamate padre Paolo (il monaco che aveva celebrato il mio matrimonio) ch’è morta!».
M’incazzai e gridai: ma che morta! Vedete quel che dovete fare e sbrigatevi – si rimise tutto in moto e una ragazza specializzanda mi raccontò poi che, mandata a cercare delle cannule, per fare delle trasfusioni anche dalle caviglie, cadde nelle scale e realizzò che se non si rialzava e rotolava avrebbe impiegato meno tempo.
Si bloccarono i miei reni. Nel nostro ospedale erano stati acquistati gli strumenti per praticare la dialisi, ma nessun medico aveva ancora seguito un corso di specializzazione per effettuare tale intervento, erano gli ultimi Anni ’60.
Ancora ci volle una prova di forza e tante firme per trasportarmi in un centro dove tentare di salvarmi. Un elicottero militare mi portò nel Policlinico di Bari .
Il mio bambino rimase a casa di mia sorella che si prese cura di lui in attesa di partorire la sua bambina, Laura nacque dopo 55 giorni dal mio parto.
Tenni fra le braccia il mio bambino per la prima volta dopo circa tre mesi dalla sua nascita. Mi chiederò, per tutto il tempo che avrò, se quel distacco violento ha potuto condizionare i silenzi che non sono riuscita mai a colmare pur con tutte le parole dette e scritte, nuove e stanche, di speranza e di dolore, che sono riuscita a inventare o a ricreare.
Riuscivo a stare in piedi per pochi minuti al giorno, mi faceva perdere i sensi un odore appena più forte, mi spaccava la bocca appena un po’ di sale, dovetti affrontare un intervento per una puntura andata in suppurazione che mi sfiancava di febbre.
Poi un intervento chirurgico di rettocele per ripristinare le mie carni lacerate dal forcipe.
Avevo perso talmente tanto sangue, ci volle la solidarietà di più di trenta trasfusioni, sentivo i miei pensieri e i miei sentimenti in un corpo che non riconoscevo come mio.
Passò qualche anno e facendo dei controlli si scoprì che avevo alcuni valori molto al di fuori della norma.
Chiesi al medico di famiglia con ironia: adesso mi è venuto anche un tumore? Non credo rispose, ma forse una epatite sì!
Cominciò così la via crucis : una prima biopsia recitò che era non A non B.
Una seconda biopsia a distanza di anni scoprì che era proprio C e con il genotipo più duro da debellare. Ancora la mia città non offriva riferimenti di eccellenza per la: sindrome silenziosa!
Come imparai, il virus dell’epatite C si installa nel tuo fegato come qualcuno che occupa e prende possesso della tua casa mentre tu costruisci sogni e futuro.
È discreto fino al punto da non procurarti fastidi che suonino allarmi. Forse un po’ di stanchezza, forse un po’ di bocca amara, ma fino a quando il danno non sia tristemente evidente nessuno se ne accorge.
Purtroppo, troppo spesso, anche i medici di base trascurano alcuni campanelli di allarme e molte persone sono infette senza saperlo.
Alcuni studi dentistici, alcuni centri benessere, i percing, i tatuaggi possono essere veicoli funesti di infezione.
Addirittura la carenza di fondi destinati alla sanità può abbassare i limiti di guardia anche nelle strutture sanitarie pubbliche e private.
In quasi quarant’anni di malattia, ho frequentato diversi centri in tutta Italia, finché non sono approdata a Pisa. Non ho mai avuto molta simpatia per i medici e molti medici non apprezzano i pazienti informati.
A Pisa ho conosciuto una equipe guidata da una ”prof” guerriera che ti spiega le cose guardandoti negli occhi, non perde mai tempo, davanti a lei non ti senti paziente perché devi avere pazienza, ma persona capace di comprendere e ragionare e decidere insieme a lei cosa è meglio per te.
Decisi di affidarmi, di scrollarmi dalle spalle il peso di accettare o no ancora degli esami invasivi, ancora delle terapie pesanti e faticose di quelle che ti rubano il sonno per tutte le notti a venire, che ti tagliano le gambe già al secondo gradino, che ti bloccano i muscoli anche al più piccolo sforzo, che ti rubano la memoria, i pensieri, ogni briciola di tolleranza, e allora perdi il contatto con le persone care perché cominciano ad avere timore delle tue reazioni e ti trattano con le pinze o non ti trattano più. Ti resta lucida e sveglia sempre la testa per cui la sofferenza si moltiplica ogni volta che reagisci male, ogni volta che la luce filtra sui tuoi occhi dopo una notte insonne.
Affrontai cinque volte quei farmaci .
In pochi mesi si scatenava nel mio corpo e nella mia testa una guerra durissima tra una creatura viscida che si aggrappava al mio fegato e cambiava identità in continuazione per ingannare i farmaci e la resistenza positiva al dolore, alla speranza di farcela.
Il virus aveva un esercito di milioni di copie e combatteva strenuamente i cavalli bianchi delle punturine sotto pelle che mi lasciavano bollata di rossi aloni sul ventre, sulle cosce, sulle braccia, le pillole grosse come caramelle da mandare giù a orari precisi, condizionando così l’ora dei pasti e il condividere questa con altri.
Per cinque volte vinse il virus, dopo alcuni mesi o anche molti mesi di terapia. Non arretrò mai, mentre gli effetti collaterali dei pesanti farmaci assunti lasciavano dolorose e avvilenti conseguenze.
I capelli, dopo alcuni mesi tornano quasi normali, non succede con i denti, con il ritmo del sonno, con i rapporti troppo spesso lacerati in famiglia.
Non è facile vivere da malati cronici, come non è facile vivere a lungo con un malato cronico.
La mia ironia mi portava a considerare che era come avere l’automobile con tutti proprio tutti gli optional!
Non ho subìto, a differenza di molte persone incontrate durante i miei percorsi, condizionamenti sociali.
I miei colleghi, la mia estetista, il mio dentista, la sala prelievi, il parrucchiere, non mi hanno mai fatto avvertire il minimo disagio.
Ho conosciuto persone, donne e uomini, nel Sud e nel Nord, che hanno vissuto la malattia nella più assoluta solitudine nel posto di lavoro e addirittura in famiglia, per timore di essere isolate o addirittura colpevolizzate.
L’ignoranza ha troppo spesso accostato l’epatite C a modelli di vita fuori dalle righe, all’alcol, alle droghe, ai rapporti sessuali promiscui.
Da anni faccio parte del Consiglio direttivo dell’Associazione Epac Onlus che informa sulle epatiti sia i malati che le famiglie – sulle leggi che regolano la materia degli indennizzi per i trasfusi da sangue infetto. Sono la delegata di Epac Onlus per la regione Calabria, rispondo alle richieste telefoniche di informazione e di supporto, distribuisco materiale informativo nelle farmacie, negli studi medici, nelle strutture ospedaliere della città e come posso nella Regione. Ancora troppo spesso chi telefona non dice il suo nome né da dove chiama esattamente. È una sofferenza morale che carica di peso e dolore quella fisica.
L’ultima terapia sperimentale è durata 6 mesi, 42 settimane, 294 notti.
Ho firmato, prima di iniziare, un protocollo nel quale accettavo il rischio di peggiorare, il rischio di morire, il rischio di contrarre o anticipare innumerevoli gravi malattie. Nessun risarcimento, la casa farmaceutica ha dissertato sui rischi e sulle proprie tutele per pagine e pagine . Avrei fatto da cavia, ma… c’era scritto restava «il fatto che avrei reso un buon servizio al mio prossimo».
Sono negativa dalla fine della terapia, non so se ho vinto una battaglia o la guerra. Non ci penso, il tempo e solo il tempo dirà se sono finalmente libera dal virus della sindrome silenziosa.
Torno a Pisa per il controllo dopo 88 settimane, spero di tornare serena perché la mia vittoria possa essere quella di tanti altri che aspettano di usufruire dei farmaci che ho testato.
Costano moltissimo e ci sono tavoli intorno ai quali si discute e si dibatte a quanti a chi potranno essere forniti gratuitamente dal Servizio sanitario nazionale.
Quale sarà la decisione? Saranno gli anziani o i malati ancora non troppo gravi, quelli in attesa di trapianto o quelli trapiantati a dover rinunciare a sperare ancora per molto tempo?
Avremo tanti aerei super dotati per la guerra sui quali far salire giovani e meno giovani militari a volare nelle missioni di pace da dove troppo spesso si torna sani e morti.
cara Adele, rileggo ora il tuo articolo, invogliata dal più recente che hai scritto sulla professoressa “guerriera”. Mi scuso se ti leggo così in ritardo. Può succedere anche a noi, blogger di questo grande utero virtuale che ci accoglie, di non soffermarci sempre su tutti coloro che ci stanno accanto. Non mi sento in colpa, tuttavia, qualcosa deve prenderti per invogliarti a seguire qualcuno e tenere desta l’attenzione. I tuoi scritti, a partire dal più recente a ritroso, mi hanno conquistata. E non è solo perché ho avuto mia madre ammalata della tua stessa sindrome, che ho seguito da quando la chiamavano nonAnonB, prima che la denominassero C. E non è solo perché anche io ho condiviso tutte le peregrinazioni in giro per l’Italia, che l’hanno portata, lei donna del sud, a farsi curare al nord, dove vivo io. E’ per la lezione che insegni, con il tuo coraggio e il tuo gesto di tirar fuori dalla tua valigia i tuoi ricordi, tutto quello che c’è di antico e che non avevi, forse, mai esternato prima, e tutto ciò nuovo, che si accumula sopra e si cerca di sistemare, come una camicia appena lavata e stirata. Ecco, è questo, è proprio questa grande forza che mi invoglia a seguirti, da ora in poi. Grazie per i tuoi scritti, di cuore.
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Cara Wanda ti ringrazio, mi commuovi davvero, non sono certa di meritare quanto dici. Dove vivi? Ti abbraccio. Grazie ancora.
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Adele mi eri gia’ molto cara…..Ora ti adoro anche se ti ho sempre considerato una DONNA SPECIALE
Anche io sono stata salvata dalla mia mamma che in un gesto coraggioso mi strappo ‘ la cannula del respiratore dalla gola che . dopo un intervento di cesareo, mi era stata inserita in modo sbagliato e io invece di respirare rantolavo.
Ti voglio bene
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