di Angela Giannitrapani
Sabato 8 marzo la Casa delle Donne di Milano ha avuto la sua inaugurazione ufficiale. Già aperta il 18 gennaio di quest’anno, la Casa è stata voluta da alcune associazioni femminili, da donne, da consigliere comunali e dalla presidente della Commissione Pari opportunità del Comune di Milano, Anita Sonego , che ha ottenuto i locali della ex scuola elementare di via Marsala, 8.
Il programma della giornata inaugurale, molto intenso e ambizioso, titolava I talenti delle donne e prevedeva eventi e incontri che andavano dai concerti di musica alla ginnastica posturale, dalle arti figurative alle letture teatrali. Una fiumana di donne ha inondato i quattrocento metri quadri e gli spazi esterni, travolgendo l’organizzazione che non ha retto all’onda d’urto. Ma quello che mi è sembrato rilevante è stato l’elevato numero di presenze, segno che il desiderio e le aspettative verso un luogo di donne sono altissimi.
Lasciando da parte gli aspetti più strettamente organizzativi, peraltro espletati in modo rigorosamente volontario, e nella speranza che l’esperienza e l’aiuto di un maggior numero di collaboratrici aggiustino il tiro nelle prossime iniziative, mi preme fermarmi sul luogo in sé. Non tutte le voci sono entusiaste dell’idea di una Casa della donne; si avanza il timore che diventi un luogo di auto segregazione, dove le donne si chiudano nel loro guscio e creino un microcosmo autoreferenziale. Il rischio è presente in tutte le associazioni monotematiche. Molto, però, dipenderà da quanto la Casa si aprirà al confronto, al dialogo, all’accoglienza di temi che dallo specifico si allarghino a quelli della società. Gli uomini hanno sempre avuto, nelle varie epoche, i loro circoli, le loro associazioni, i loro club esclusivi. Lì hanno difeso le loro idee, la loro politica, i loro comportamenti. In quei luoghi li hanno rafforzati e da quei luoghi sono usciti per permeare la società e per raggiungere i posti di potere. Perché un luogo, nel quale possano confluire tutte le donne della città che lo vogliano e tutte le associazioni femminili, dovrebbe diventare un luogo di segregazione? Non sono le mura, i pavimenti, le stanze che faranno da prigione. Perché, invece, non pensarlo come il luogo delle idee e del confronto? Il laboratorio nel quale costruire un immaginario delle donne che ancora manca? Manca, infatti, l’idea di quali donne vogliamo essere nella società, nella politica, nelle comunicazioni, nell’arte, nell’economia, nel lavoro.
La scommessa, oggi, per tutti, è pensare la partecipazione femminile in ogni ambito decisionale e di progettazione almeno a parità numerica con quella maschile, ma non basta colorare di rosa o di arancione la politica degli uomini. Interessanti, a tale proposito, gli interventi di Lea Melandri su Io Donna on line del 7 marzo 2014, intitolato “L’8 marzo? Ha ancora senso, ma non chiamatela ‘festa’”. E quello di Anita Sonego su Arcipelago Milano, intitolato “Rivedere l’arcobaleno in piazza Duomo”.
Soprattutto non basta, anzi è mistificatorio, che le donne vadano in politica con la testa da uomini. Non è una ex scuola che cambia la testa, ma è fondamentale avere dei luoghi fisici che diventino sede di idee, di confronti, di aggregazione per produrre identità nuove, così forti da potere scardinare quelle commistioni, quei compromessi, le false emancipazioni che ingannano e non rinnovano una società fatta e vissuta da donne e da uomini.
Ripetere una stanza tutta per sé è diventato ormai così diffuso da rasentare la banalità. Ma, a proposito di Virginia Woolf , avrei ancora un paio di cose da dire.
Forse, una prossima volta.