di Adele Colacino
Ho letto, qualche tempo fa, il ricordo di una figlia della propria madre venuta a mancare, l’ho letto prima velocemente, come s’ingoia uno sciroppo necessario, ma amaro al palato.
Poi, più volte sono tornata a riprenderlo, come se aperta la scatola, potessi non temere oltre i miei spettri che ne sarebbero saltati fuori.
Stella, mia madre, ebbe il ruolo di donna forte per forza, rimasta vedova dopo circa dieci anni di matrimonio soltanto e tre figli piccoli da crescere.
Ho una sorella e un fratello ed io sono la maggiore dei tre
Ero io quella lontana fisicamente da lei, non esistevano le badanti e il figlio maschio e prediletto aveva il ruolo di figlio maschio e prediletto, che fosse presente o no.
Mia sorella che porta ancora, quasi nella terza età, la cicatrice di un allontanamento forzato dalla madre e dai fratelli in tenera età, fu quella che abitandole accanto, se ne occupò più costantemente.
Siamo cresciuti in un ambiente psicologico triste e severo, il “Dovere” lo trovavamo nelle scarpe scendendo dal letto al mattino e ci stava accanto tutto il giorno.
Tra noi figli e con la madre non c’erano tenerezze espresse, Lei parlava bene e con orgoglio di noi soltanto in nostra assenza, noi non ci abbracciavamo, noi non ci abbracciamo, eppure viviamo il nostro rapporto parentale in modo vigile e presente, specialmente nei momenti di difficoltà: ho letto da qualche parte “l’affetto non vive senza una lingua”, non sono proprio d’accordo.
Vive, vive cercando linfa possibile nei silenzi, nei principi comuni assimilati negli anni, nei pensieri, nel fare più che nel dire. Vive come vive una pianta che si adatta al territorio e può far nascere fiori stupendi e fugaci. Vive e cresce assaporando attimi di intesa che da uno sguardo, da un ricordo comune trae beneficio a lungo.
Noi tre siamo rimasti orfani di padre che io, la maggiore, avevo appena compiuto dieci anni.
Malata di orgoglio e timidezza appaio appena nella foto di gruppo di quinta elementare, ma spiccano fra i sorrisi spavaldi i miei calzini neri e il fiocco nero di bambina in lutto.
Mia madre era una donna molto energica, severa con noi e contemporaneamente anarchica nei confronti di molti principi del suo tempo e della sua cultura.
Non esisteva il fenomeno della migrazione delle donne badanti, ma credo che non avrebbe mai accettato una estranea in casa. Fece tutto da sola fino alla fine, organizzando la casa e le cose da fare con perspicacia e giudizio.
Già molti anni prima che si ammalasse, meglio che prendesse coscienza e accettasse la malattia, aveva preparato una valigetta di cartone con i vestiti della morte e una fotografia per la lapide nella quale sorrideva allegra: chi passerà davanti alla mia tomba dovrà pensare: che signora simpatica !
A volte restava senza calze nuove da indossare e allora diceva: va bene prendo quelle della valigetta, non morirò entro questa settimana!
Non vado quasi mai al cimitero, non sta nella mia testa il culto dei sepolcri, nessun pensiero o spirito potrà mai essere chiuso in un loculo umido e buio e spesso gli arredi, i fiori, i lumi, le cappelle gentilizie rappresentano soltanto una immagine da presentare agli altri.
Proprio pochi giorni fa, una aristocratica signora seduta accanto a me dal parrucchiere raccontava: sono andata a trovare la mia cappella al cimitero!
Tra i vestiti trovammo una lettera, ci raccomandava di trovare sempre un accordo tra di noi, di vivere in pace e di chiamare Don Lolò, il vecchio sacerdote della chiesa vicino casa – ormai in pensione da anni – perché avrebbe sicuramente fatto presto presto, così non avremmo perso molto tempo con il suo funerale.
Non ci aveva mai portato in chiesa, andava a messa una volta all’anno per l’anniversario della morte di mio padre. La ricordo inginocchiata sulle mattonelle blu, rosse e bianche della nostra cucina per seguire la supplica alla Madonna di Pompei che ascoltava per radio. Tutta qui la sua religiosità. Noi tre non abbiamo mai pensato di far dire messe in suffragio, ma questo lo sapeva perché, glielo dicevo sempre, qualora fosse mancata prima di me.
Penso a mia madre ogni giorno, a volte con tenerezza a volte ci litigo aspramente dandole colpa di alcune difficoltà della vita mia costruite sui suoi principi inflessibili, radicati in me che io lo voglia o no.
Ho molti dubbi su di un nostro possibile incontro ancora, se dovesse capitare ci faremo una gran risata finalmente e, ancora, le dirò il fatto mio.
*Leggi anche Mia mamma non mi ha lasciato. Mia mamma è morta
uf, che fatica. e che piacere.
fatica perché rivedo tante cose di mia madre nelle caratteristiche di tua madre. (Tra noi figli e con la madre non c’erano tenerezze espresse, Lei parlava bene e con orgoglio di noi soltanto in nostra assenza, noi non ci abbracciavamo… Mia madre era una donna molto energica, severa con noi e contemporaneamente anarchica nei confronti di molti principi del suo tempo e della sua cultura. …Già molti anni prima che si ammalasse, meglio che prendesse coscienza e accettasse la malattia, aveva preparato i vestiti della morte e una fotografia per la lapide nella quale sorrideva allegra)
mamma era di soverato, non so com’è ma mi sa che quella foto non è fatta molto più a nord… mia nonna era uguale.
fatica, dicevo, ma anche piacere e per lo stesso motivo,con la differenza che io non sono riuscita a scriverlo e leggerlo mi è servito altrettanto. (Penso a mia madre ogni giorno, a volte con tenerezza a volte ci litigo aspramente dandole colpa di alcune difficoltà della vita mia… radicati in me che io lo voglia o no.
Ho molti dubbi su di un nostro possibile incontro ancora, se dovesse capitare ci faremo una gran risata finalmente e, ancora, le dirò il fatto mio.)
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Ciao Elisabetta, scusami leggo solo ora le tue parole. Non stavamo lontano da Soverato ed a Soverato ci torno, facendo poca strada, ogni estate. Pare che il tempo, come pomata lenitiva, copra i graffi, ma quando più tempo ti resta per ascoltarti tocchi che la memoria ha fatto un callo che nel silenzio fa un pò male. Pare che quegli abbracci siano spazi vuoti che tu non hai saputo, altri non hanno saputo riempire.Ti abbraccio.
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Più conosco le collaboratrici di questo blog e più sono contenta di essere stata “indegnamente” inserita nella loro bella “compagnia”! Di questo racconto della signora Adele ho già trascritto nel mio “diario segreto” tre frasi: “il dovere lo trovavamo nelle scarpe scendendo dal letto al mattino e ci stava accanto tutto il giorno”; “nessun pensiero o spirito potrà mai essere chiuso in un loculo umido e buio”; “alcune difficoltà della vita mia costruite sui suoi principi inflessibili, radicati in me che io lo voglia o no”. Quando si trova espresso con questa chiarezza ciò che confusamente si avverte ci si sente e si respira meglio! Grazie signora Adele per averci fatto conoscere la sua cara mamma, per alcuni versi anche molto originale. Dei calzini neri e del fiocco nero, però, non avrei voluto sapere!
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Allora, cara Eliana, parlami chiamandomi solo Adele chè questo blog è un angolo pulito dove si respira, grazie a Paola Ciccioli, simpatia e stima. Spero che in futuro si possa creare un momento nel quale ritrovarci e guardarci, abbracciarci e mettere insieme le parole e gli occhi e le voci. Grazie. Per adesso ti abbraccio virtualmente.
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Ciao, ragazze. Particolarmente bello questo ricordo scritto da Adele, sì. A presto.
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