di Rosalba Griesi
Non sto nella pelle! La fibrillazione mi sale fino in gola, pulsa, bussa, freme… Devo far presto: il lavoro, la strada che percorro ogni giorno, le buche da evitare…il fango, la pioggia! Ma dopotutto ne vale la pena se ad un certo momento mi si para innanzi il mio monte, non di certo l’ermo colle che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude, ma il mio gigante buono, che maestoso e solitario si erge, guardiano delle dolci vallate.
Ogni mattina ha un umore diverso. Ora ha la testa fra le nuvole, ora indossa una sciarpa di nubi. Ora strisce di luci s’adagiano sui fianchi poderosi, come di donna fiorente, smerlando i crinali sino allo sfumare, ora l’arcobaleno s’inarca fra le sette cime. Quel monte è la mia forza.
Silenzioso siede ai piedi del cielo e né pioggia né tempesta o neve riescono a scalfirlo. Come il sorgere del sole al mattino sulle morbide cime, così i miei sogni albeggiano. Tenaci, caparbi, predominanti come quel monte. Il mio ora, il più grande, è imminente, è tangibile.
Ero poco più di una ventenne e già mi cullavo i ninnoli al cuore. Vagiti nella notte e bianchi ruscelli dai seni. Imparavo la vita attraverso la vita. E’ stato splendido crescere con loro, con i miei tre figli!
Intanto avevo chiuso nel cassetto i miei sogni, qualcosa di sospeso vi scalpitava, lo sentivo.
Da piccola ero piuttosto silenziosa, e così fino all’adolescenza. Arrossivo per uno sguardo in più e cercavo sempre di sottrarmi alle attenzioni altrui. Quando il “don” mi propose di cantare nella corale, come voce solista, mio padre esclamò stupito: «Una bella voce? Ma se a malapena la sentiamo parlare!».
In compenso leggevo di tutto, persino la carta del quotidiano che avvolgeva i pacchi. E scrivevo sui fogli volanti, sui diari, con penne, colori, persino frasi con le matite per gli occhi.
Ma il destino non mi era provvido. Mio padre mi aveva pianificato un futuro da sarta, allorché il professore di italiano, delle medie, irritato, conferì con mio padre con un fare di rimprovero: «Non vi permetto di rovinare questa ragazza, che ha lo studio nel sangue!».
Il prof. la spuntò, io m’iscrissi alle superiori, e comunque non al liceo classico, che era ubicato, purtroppo nella vicina Venosa, patria del vate, Orazio Flacco, bensì all’Istituto Tecnico Commerciale, l’unica scuola del mio paese. Mio padre non avrebbe accettato che fossi la pendolare di turno, e tuttavia, il corso di taglio e cucito lo frequentai ugualmente.
Ma tant’è, gli anni ’70, erano ancora anni di formazione, di controversie, raddoppiati, per noi del Sud, questa terra sventurata e pur splendida, che versava nel torpore dell’arretratezza.
Naturalmente della partita doppia, o della tecnica bancaria, poco m’interessava! In uno zero, ci vedevo una “o” che, fagotto in spalla, decideva un giorno di abbandonare i quadretti per recarsi fra le righe, incontrare la “I” e mettere su famiglia, quella degli “Io”.
Invece della letteratura m’importava eccome, tanto da studiarla sui testi del classico che una mia amica mi prestava in gran segreto. Giuravo fra me che dopo il diploma mi sarei iscritta alla facoltà di lettere e intanto scrivevo di nascosto, poiché non mi si giudicasse frivola, con la testa fra le nuvole. Scrivere? Non era mica un mestiere che dava pane!
Avevo ormai sfatato il futuro di sarta, ma dopo il diploma, avrei dovuto seriamente pensare al matrimonio. Da noi, dopo i venti o ventidue anni si era già zitelle, e quei pregiudizi pesavano come massi, ed era difficile sottrarsi.
La fatica, tuttavia di crearmi un mio spazio, non la risparmiavo. Il lavoro di segretaria, che nonostante non mi piacesse, ma che tuttavia eseguivo con diligenza, mi rendeva autonoma, e nel frattempo la mia voce, quella del cuore, mi sussurrava di non mollare, di continuare a credere nei miei sogni.
I miei figli crescevano, liberi. Io giocavo con loro, leggevo per loro, li facevo sentire importanti e nel frattempo li osservavo, li guidavo, con discrezione, di nascosto quasi, senza invadere i loro spazi. Intanto scrivevo, scrivevo poesie a loro dedicate.
Il tempo mi pretendeva e un bel giorno decisi di aprire quel cassetto, visto che i miei figli erano ormai universitari, protesi sulla loro strada.
Quando annunciai la mia decisione, mi trovai a dover sormontare le mura dei pregiudizi e della diffidenza: «Cosa te ne fai di una laurea a quest’età e di questi tempi!». «Come farai a dividerti tra lavoro-famiglia e studio?». «E’ l’università della terza età?».
Io non vedevo altro che il traguardo, e il giorno che m’immatricolai, fui certa di questo momento.
Il percorso l’ho vissuto, sentito, amato. Ricominciare a studiare dopo tanti anni, non è stato facile, ma è stato possibile grazie all’amore per la cultura, quell’alito che pervade e cattura, l’impeto per la scrittura, l’unica vera maniera per catturare l’imprescindibile, la leggerezza della poesia, l’”ungarettiano” mistero che altro non è, se non la voce dell’anima.
Sono stati ritagli di tempo, ore rubate agli impegni, silenzi notturni… Ad ogni esame m’imbevevo di quel ricco sapere, disquisivo di argomenti in apparenza non attinenti alla materia, ma in effetti era come se la realtà, di cui vantavo la maturità, ritrovasse corrispondenza in quelle teoriche.
Sono stati anni in cui ho vissuto di prima mano, assieme ai miei figli la realtà universitaria con le sue problematiche e le sue positività. Ritrovarmi con le ragazze, che mi consideravano una di loro è stata una fresca ventata. Rivedo gli sguardi ammirati dei professori, per questa insolita signora che ogni volta sfidava se stessa al tavolo dell’esame. Ma anche sguardi poco incoraggianti, direi, sebbene pochi!
Ed ora eccomi qua in fibrillazione, ad un mese dalla seduta di laurea. Non mi pare vero! Ed anche ai miei figli che mi ripetono: «ma’ sei forte!».
Nel frattempo mi è capitato di pubblicare due libri di poesie, la poesia, maestra della mia vita. Ho pubblicato articoli sul periodico Libero Accesso, di carattere antropologico, con lo scopo di ritrovare l’identità. Ho ricevuto targhe, premi, in concorsi letterari.
La tesi! Un bel lavoro davvero. Indologia: il confronto di due opere, una appartenente alla Tradizione – il Ramayana, l’altra appartenente al moderno – Kaikeyi – della poetessa indiana Amreeta Syam. Ho scelto un argomento al femminile, convinta di doverlo al mio sforzo d’essere donna a tutto tondo. Mi è capitato di tradurre dall’inglese il poema dedicato a questo pro-totipo di femminista del passato. Kaikeyi, la regina perfida, che rappresenta nella cultura induista, il modello di donna da non imitare. La femme fatale del Ramayan, che si ribella al ruolo di pativrata che i testi sacri hanno disegnato. La condizione della donna che ancora oggi soffre, sottomessa in una società prettamente patriarcale, misogina. Mio Dio, quanto ci sarebbe da scrivere, da esporre, da svelare, e non solo per quella parte del mondo.
Fibrillante, ma soddisfatta, ora che mi approssimo alla stampa del mio lavoro di 220 pagine. La mente dell’uomo è in grado di contenere l’infinito. Non ci sono limiti, né confini a quella di una donna innamorata dei suoi sogni. I miei albeggiano dietro al monte ed io li scorgo al mattino e mi conducono verso nuove mete, nuovi traguardi.
Ora intanto il sipario si schiude sul mio sogno ormai realizzato: la mia laurea in lettere moderne.
In un post di Maria Elena Sini abbiamo raccontato anche la storia di Laura, poliziotta e madre che studia per il diploma.
Sei fortissima Rosalba e quanto somiglia la tua storia alla mia.
Il traguardo che hai raggiunto mi dona felicità.
Adele
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Rosalba, cosa aggiungere alla tua penna intrisa di emozioni …..Il tuo traguardo sarà un inno ai sogni genuini e forti….Rincorrerli con la tua tenacia…..un esempio….
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Grazie Adele, grazie Maria! Rileggendo a distanza di qualche mese, rivivo le stesse emozioni…
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