di Mariagrazia Sinibaldi
Abdelkader ben Abdallah: sembra il nome di un principe del deserto, pensammo noi quando arrivammo in Marocco. Il “ben” vuol dire “figlio di” e quindi nulla di strano.
E la moglie, Fatima, ma lei contava poco, nemmeno il “ben”. Era una donna, due passi dietro all’uomo, chiunque egli fosse.
Questi erano i nomi per esteso di quelli che oggi si chiamano “collaboratori domestici”, che lì si chiamavano “servi” e che noi, con infinito affetto, avevamo soprannominato “schiavi d’amore”; perché amore era quello che alla fine ci legava a loro e loro a noi.
Lui aveva una espressione sempre, seria («truce», diceva mio marito). Perché era un uomo e doveva dimostrare di essere “uomo serio”; parlava e scriveva arabo e francese. Oh dio, diciamoci la verità, il suo francese era veramente raffazzonato, ma noi ci capivamo lo stesso. Il guaio fu che alla fine il mio francese, così fluente e letterario all’inizio, era diventato… come dire? Tout à fait Kaderien.
E la moglie Fatima? Per usanza locale non valeva niente, per noi fu la dolcezza personificata. Non sapeva né leggere né scrivere, parlava solo arabo ma si faceva capire. Aveva sulla fronte, all’attaccatura del naso, una grande cicatrice a y rovesciato. Mi disse Kader, quando chiesi spiegazioni, che lì prima c’era un tatuaggio, ma lui, eh lui, quasi un letterato, non poteva sopportare l’idea di una moglie tatuata. E così gliela aveva fatta cauterizzare! Non andai oltre con la richiesta di informazioni.
Lui aveva 23 anni, lei ne aveva 18 (così mi hanno detto). Era stata, Fatima, una bimba quasi abbandonata, che gironzolava tutta sola per il paese e il padre di Kader, Abdallah, secondo gli usi locali, la comprò per quattro capre, e l’affidò a sua moglie (ma era veramente sua moglie? E quante mogli aveva Abdallah?) con l’intenzione di darla in sposa a suo figlio Kader. Quando Fatima diventò donna furono celebrate le nozze. Quanti anni aveva Fatima in quel momento? Non me lo hanno saputo dire: i numeri, gli anni compiuti o meno, il computo del tempo, non faceva parte di loro. C’era un’anagrafe in Marocco, ma figurati, a Taza, in mezzo alle montagne, al confine con l’Algeria.
Non si lasciarono mai, e anche se non avevano figli, lui non la ripudiò, secondo le usanze locali: lui l’amava, l’amava davvero!
Stette male Fatima, ma tanto tanto male, dopo tre mesi che eravamo in Marocco, e tememmo per lei, ma se la cavò con l’aiuto di un medico arabo mandatoci dall’ospedale. Kader ci confessò che erano due mesi che si sentiva male, Fatima, ma che non ci avevano detto niente temendo che, secondo gli usi locali, li mandassimo via. Erano tre mesi soli che lavoravano per noi, ma ci avevano già conquistato il cuore: lui con il suo fare serio serio, lei con la sua languida dolcezza.
La curammo a casa a furia di antibiotici e antidolorifici e il medico veniva due volte al giorno fino a quando non fu fuori pericolo; prendemmo una donna che facesse i lavori per lei e fece una buona convalescenza. Da quel momento mio marito e io diventammo per loro mon père e ma mère.
E ci amarono con una dedizione assoluta e commovente, i miei figli diventarono per loro quasi il figlio che non avevano. Luca, il più piccolo, lo chiamavano el fellous, il pulcino. La portai, Fatima, dal mio ginecologo con la speranza di aiutarli ad avere figli. Ma la cosa finì lì. Peccato, perché sarebbero stati un ottimo padre e un’ottima madre.
Se i due anni che abbiamo vissuto in Marocco sono stati anni belli, spensierati e leggeri, molto lo dobbiamo a loro che hanno avuto la capacità di essere sempre presenti con le loro attenzioni. Kader, il letterato, andava in banca, alla posta, in questura, in tutti gli uffici governativi e non. E Fatima teneva la mia casa sempre bellissima e piena di fiori. Telefonare alle 6 del pomeriggio e dire: «stasera siamo in dieci a cena, menu: tajine au citron. Io metto l’abito azzurro». Tornare alle 8 e trovare la tavola apparecchiata con centrotavola di fiori e frutta, opera di Fatima, la cena pronta, il vino scelto a dovere e, sul letto in camera mia, il vestito azzurro e gli accessori adatti. Embè, signori miei…

Mariagrazia Sinibaldi, sul divano di casa, tiene in mano una copia di È come vivere ancora”, il libro edito dall’Associazione Donne della realtà che Mariagrazia presenterà, con la preziosa collaborazione della giornalista Margherita Rinaldi, oggi, sabato 1° ottobre 2016, all’Istituto Campana di Osimo (http://www.istitutocampana.it/) (la foto è stata scattata con il cellulare da Luca Bartolommei il 18 settembre)
Ma poi dovemmo tornare in Italia: e non ci fu verso… vollero venire con noi. E questo contro il volere di tutte e due le famiglie: quella di lei e quella di lui, le quali si organizzarono benissimo. Infatti dopo un mese che stavamo “parcheggiati” in Osimo (una delle tante avventure della mia vita accanto a mio marito) arrivò per Kader un telegramma che annunciava la morte di suo padre!
I due si dettero al “duolo” con grida e alti “lai”, sbattimento di teste al muro, graffi facciali reciproci e strappamento di capelli.
Sapevo di questa usanza ma non avevo mai assistito. Ero veramente esterrefatta: per prima cosa pensai ai figli, che non si impressionassero troppo (ma loro non si preoccuparono più di tanto), poi corsi a chiudere tutte le finestre di casa perché non si sentissero per il paese tutti quegli urli. Kader non si radeva, Fatima non mangiava e mi toccava imboccarla… insomma un vero e proprio disastro! Dopo qualche giorno di questa solfa prendemmo tutti insieme la decisione di un loro rientro in Marocco.
Piangevano, quando li accompagnammo alla stazione. Erano arrivati da noi che mangiavano pane e olive e dormivano per terra; ora mangiavano carne tutti i giorni e andavano a letto, in un letto vero, con la borsa dell’acqua calda. Che cosa avevamo fatto? Con che diritto li avevamo trasformati così? Sarebbero stati in grado di rientrare nelle abitudini e negli usi locali? Anche per noi vederli andar via fu un dramma. Tornarono a casa loro, Taza, in mezzo alle montagne, e trovarono che non si era verificata alcuna morte. Tutta una finta per farli rientrare a casa. Kader prese a pugni fratelli, cognati, cugini e (fatto gravissimo) il padre e passò una notte in guardina; poi vendette la macchina (la 850 che gli avevamo lasciato noi), prese la sua adorata moglietta e partirono per la Francia.
Tutte queste notizie le avemmo dopo circa quattro mesi, da una lettera di Kader, che nel suo francese raffazzonato e con la sua scrittura svolazzante ci faceva il resoconto. Essendo periodo estivo, credo che per mantenersi abbia fatto il vu cumprà di tappeti. E ripensai al suo lavoro fisicamente leggero, ma di responsabilità svolto a casa nostra!
Verso novembre ricevemmo un’altra lettera, da Parigi-Neuilly, che ci raccontava come, grazie al fatto che parlava e scriveva due lingue (e anche l’italiano lo farfugliava un po’), e grazie alla patente che gli avevamo fatto prendere noi, Kader aveva trovato un lavoro di autista alla Renault e che Fatima faceva la bonne presso una famiglia italiana. Non francese (sottolineava lui), perché i francesi sono méchants (cattivi) e lui non avrebbe mai permesso alla sua Fatima di lavorare se non per una famiglia italiana.
Quando il bambino di cui si occupava cominciò ad andare a scuola, la signora incoraggiò Fatima a imparare a leggere e scrivere.
Ma lei non volle. Troppo, troppo grande sarebbe stato il salto! Peccato, perché era una donna intelligentissima, molto molto più di lui.
Dopo un po’ di anni, dovendo passare da Orly, diedi loro un appuntamento: avevo desiderio di rivederli. E vennero. Lei, sempre due passi indietro, aveva un’arietta cittadina col suo paltoncino blu e parlava un delizioso parigino.
Kader, lui non resistette. M prese il viso tra le mani e, piangendo lacrime vere, mormorò: madame, madame…
E stai a vedere che adesso mi commuovo anch’io…
Questo splendido racconto di Mariagrazia nasce dal fatto che alcune persone che l’hanno conosciuta quando lei abitava a Osimo, nelle Marche, hanno letto i vari capitoli della sua vita sul nostro blog e l’hanno contattata qui. Ricordando proprio Kader e Fatima. Nella colonna di destra della home page di Donne della realtà, trovate adesso la foto di Mariagrazia e, cliccando, potete leggere tutte le sue originali (e strepitose) testimonianze. (P.C.)
© Riproduzione riservata
AGGIORNATO IL 1° OTTOBRE 2016
Perché non sono tornati in Italia e da voi? Non vorrei sembrare invadente, ma da tutto il racconto emerge un legame speciale e poi?
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