di Elisabetta Baccarin
leggendo del lavoro sulle emozioni in bicocca, mi è tornato in mente che nel mio piccolo, fatto di un lavoro che con l’insegnamento non c’entra più nulla da molti anni ma che mi fa ogni giorno conservare nel cuore l’insegnamento come uno dei lavori migliori che abbia fatto, mi sono laureata da adulta (avevo già 31 anni) con una tesi sulla valenza sociopedagica delle fiabe popolari. il perché della mia tesi è arrivato per caso: sono rimasta iscritta all’università per 12 anni e non ho mai frequentato, tranne qualche lezione e seminario che poteva coincidere per orari e brevità con i tempi della mia vita altra, e l’italiano era l’unico campo che avrei potuto affrontare in autonomia e senza ‘firme’ che i professori chiedevano per le lezioni. ho dato tutti gli esami e me ne mancava uno solo, ma non sapevo come terminare il mio percorso. negli ultimi anni della mia iscrizione mi sono trovata a frequentare spessissimo mantova e anche una nonna, di cui racconterò un’altra volta, che da sempre ha raccontato fole. ‘non raccontar fole‘ è un modo per dire a qualcuno ‘non dire fandonie’. e mi son tenuta questo pensiero per me, fino a che non ho visto una bimba di 3 anni che incontrando la nonna, abbandona il televisore, le corre incontro e le dice ‘ciao nonna, mi racconti una fola?’. e mi sono domandata perché e mi è tornato in testa quel pensiero sulle fandonie.

“Là dove scorre il Mincio” di Franco Piavoli è in programma sabato 10 settembre 2016 al Museo Interattivo del Cinema di Milano nell’ambito del Festival della Biodiversità (http://mic.cinetecamilano.it/)
ma non avevo ancora messo a fuoco niente e pensavo di proporre un lavoro sul dialetto mantovano, alla professoressa di italiano. poi per impegni di lavoro ho aspettato ancora qualche tempo, ma nel frattempo ho scoperto il mondo di internet. un giorno ho digitato ‘fiaba’ in un motore di ricerca e sono rimasta stranita dal numero di voci e relazioni che ne uscivano. ho continuato a pensare per un po’, e il caso e il naso mi hanno aiutato molto: per qualche tempo fiutavo sulla metropolitana, con amici, e coglievo sui giornali spunti utili a quel che mi girava per la testa e li ho uniti alle persone che coincidenze mi hanno fatto conoscere. ho fatto due parole con giancorrado barozzi, che davanti a un tè e a una torta mi ha in un pomeriggio messo a fuoco e scaldato i pensieri. la torta e il materiale chiave li avevo davanti ed erano tutti opera della nonna che conta le fole e del barozzi, che negli anni settanta per la regione lombardia aveva curato ‘ventisette fiabe raccolte nel mantovano’. non ho dormito qualche notte per l’entusiasmo, ho radunato i pensieri e sono andata a proporli alla professoressa mazza tonucci. nonostante la cascata di pensieri che avevo in testa ma che non uscivano per una diga difficile che mi faceva credere che fossero tutti pensieri spanati come una vite, il mio girare non è stato a vuoto: ‘bello, ci lavori!’ mi ha detto, scriva il primo capitolo e me lo porti. la tesi era mia, dovevo solo lavorarci. eh, brava, dici poco.

Il Festival della Biodiversità, giunto alla decima edizione, è una manifestazione nazionale pensata per “terrestri” di tutte le età ed è un omaggio alla natura e alle sue meraviglie da tutelare. Si tiene dal 9 al 19 settembre 2016, principalmente nel cuore del Parco Nord Milano (http://www.festivalbiodiversita.it/
Il fiume è nato
ho incanalato i pensieri, li ho lasciati tutti scorrere appuntandoli, stampando pagine da internet, strappando pagine di giornali negli studi medici, e assorbendo qua e là gocce su cui soffermarmi, come una terapia omeopatica da tenere sotto la lingua. il mio intento è stato quello di evidenziare l’importanza della fiaba popolare nel rapporto tra bambino e adulto. in particolar modo volevo dare tutta la luce che merita alla relazione tra insegnante e alunno, intesa come interazione di insegnamento che esprime una relazione. ma insegnante, cioè chi lascia un segno e chi conduce dentro il segno, può esserlo anche un nonno… mi sono chiesta se fosse proprio l’emozione l’anello della catena che insieme ad altri lega l’india, forse madre delle fiabe, con qualsiasi altro luogo. e in quel legame, che ruolo avevano gli anziani? ho volontariamente tralasciato di addentrarmi troppo nello specifico di teorie e analisi sulla fiaba, citandole, abbozzandole o sommariamente descrivendole, con l’unico scopo di preparare il passo al mio voler andare più in là, richiamando coloro senza i quali non sarei potuta giungere al mio nuovo punto di partenza, forte anche di quel riconoscimento dovuto al lavoro altrui, radice sempre di quel che sarà ramo.

«Il palcoscenico naturale del Parco Nord Milano accoglierà una vera e propria rassegna di spettacoli teatrali, musicali e performativi nella natura». Sabato 10 settembre 2016, nella Cascina Centro Parco, spettacolo per ragazzi dal titolo: «C’era una volta… un cece, un pisello, un fagiolo e una lenticchia” (https://www.facebook.com/Festival-della-Biodiversit%C3%A0-121354194556487/?fref=ts)
quindi alla professoressa ho portato i primi tre capitoli, perché i primi due si potevano tranquillamente tralasciare perché non dicono nulla di nuovo sulla fiaba e la formalizzazione. ma dal terzo capitolo in poi, in un’esposizione volontariamente personale e discorsiva, ho voluto scoprire un valore aggiunto della fiaba, senza alcuna pretesa di scientificità. ho chiamato in causa quattro autori che si sono occupati di fiabe popolari e che nella fattispecie, si sono bagnati chi solamente lambendo, chi proprio tuffandosi nelle dolci acque delle fole mantovane. uno di questi è italo calvino, che sotto la spinta di natalia ginzburg e cesare pavese, riceve negli anno 50 da einaudi la richiesta di una raccolta di fiabe italiane. un lavoro faticoso anche per calvino, soprattutto perché chi si era tuffato in mare prima di lui già aveva un’idea di dove stesse finendo e non come lui che si cimentava in un tuffo a freddo. ma poi ne fu proprio rapito, con una passione tale che l’avrebbe portato a dare tutto proust per una nuova versione del ciuchino caca-zecchini.

«Oltre agli spettacoli teatrali pomeridiani in Cascina, sono allestiti laboratori per grandi e per piccini all’OrtoComune Niguarda» (https://www.facebook.com/OrtoComune-Niguarda-633041720141989/?fref=ts)
tutto questo perché la consapevolezza finale che ha accompagnato calvino è che quel che l’ha spinto a tuffarsi nelle fiabe dopo mille timori, è la convinzione che le fiabe sono vere. ma avrei potuto mai tralasciare gianni rodari? no. no, ma non tanto per la fiaba in sé, che nel linguaggio comune equivale alla favola, ma per la particolarità del suo trattare di argomenti che prima di lui nessuno aveva fatto rientrare nella letteratura per l’infanzia, per ‘… parlare con loro – i bambini – delle cose d’ogni giorno, del disoccupato, dei morti di modena, del mondo vero, non di un mondo, anzi, di un mini-mondo di convenzione‘ (gianni rodari, favole al telefono) perché ‘coi bambini si può parlare di tutto, del terrorismo, dell’inquinamento, della bomba atomica, dei rapporti coi genitori‘ (gianni rodari, quello che i bambini insegnano ai grandi). tutti gli usi della parola a tutti era il suo motto, ma ‘non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo. restai folgorata leggendo le sue parole. così come in favole al telefono, anche nella grammatica della fantasia ribadì il valore del rapporto che si crea narrando e ascoltando e raccomandò nuovamente alle madri, ai nonni, agli insegnanti di raccontare ai figli e di inventare storie. intendeva la fiaba come strumento di progresso civile e, se non fosse morto nell’aprile dell’80, non mi sarei meravigliata di vederlo a genova nel luglio del 2001…
Raccontare
raccontare: avevo capito la differenza tra un corpo che racconta, che dà voce e colore alla parola,che si commuove e una cassetta con fiabe e favole registrate che si trovano in edicola, avevo compreso la differenza tra la memoria delle persone e quella di un nastro registrato: il senso della trasmissione orale non si esaurisce nel contenuto, servono corpi ed emozioni, ‘la presenza di qualcuno in faccia’ (erri de luca). avevo compreso che chi ha la memoria più lunga, sono gli anziani che hanno sempre un sacco di cose da raccontare, non necessariamente fiabe ma anche la vita, la cucina, gli avvenimenti storici che hanno vissuto. e questi nonni non li ho fatti fermare davanti al cancello della scuola o dell’asilo per far accompagnare i nipotini ma li ho fatti entrare in classe, per un corpo a corpo cuore a cuore voce a voce con gli insegnanti e la classe. non me lo sono inventato io, ci sono progetti concreti da anni in giro per l’italia ma anche in altri paesi che utilizzano le voci degli anziani anche solo per leggere in classe.
Come scorre il fiume
il fiume da cui mi stavo facendo trascinare mi ha fatto tornare a genova, al valore della piazza, dei corpi e delle presenze in piazza, delle manifestazioni in piazza.
non potevo esimermi dal pensare alle parole parole di erri de luca a commento del film documentario di francesca comencini carlo giuliani, ragazzo: “una madre racconta la giornata breve di suo figlio, dall’uscita di casa in un mezzogiorno di luglio fino al proiettile del pomeriggio sparato in testa. un’altra madre ascolta e registra voce, faccia, racconto. in mezzo a loro due scorrono le folle che invasero genova per essere pietra d’inciampo alla riunione dei signori del mondo, per essere pietra d’angolo di una nuova casamondo. il ragazzo carlo giuliani, figlio di haidi, oggi è cenere. sua madre non maledice il giorno, l’ora, l’assassino. parla del suo ragazzo ucciso in piazza e lo rimette in eredità a noi perché quel figlio è nostro e resta in piazza”.
forse è solo per la potenza della parola e dei corpi ostinati che le nonne e le madri di plaza de mayo dal 1977 tutti i giovedì dimostrano a buenos aires per ricordare mariti, figli, nipoti scomparsi nel nulla, desaparecidos sui quali invece gli assassini conniventi tacciono, per far dimenticare. ecco, mi sono laureata un giovedì mattina e non ho perso l’occasione di poter dire delle madri di plaza de mayo in un’aula dell’università cattolica. era per me una questione di onore. ho tenuto in frigorifero fino alla morte di pio laghi una bottiglia di champagne, aperta per i miei gusti sempre troppo tardi.

“Cozze in amore” di Willemiek Kluijfhout al Museo Interattivo del Cinema sabato 10 settembre 2016. «il film mostra il ciclo vitale delle cozze, tra affascinanti primi piani che trasformano i crostacei in arte astratta, si osservano le cozze mentre si innamorano, rimangono incinte o si piantano al suolo con tutte le loro forze per affrontare la tempesta» (http://mic.cinetecamilano.it/)
La vellutata di ceci con gamberoni
ecco, mi rendo conto che forse la fiabe sono state nella ricetta che stavo componendo come i ceci per la vellutata di ceci con gamberoni: senza i ceci, la ricetta non ha senso. ma quel che dà maggior soddisfazione è succhiare la testa dei gamberoni, che per me, d’altronde, è uno degli ottimi motivi per cui vale la pena vivere. mi piace molto pensare alle sfumature etimologiche che mi paiono sempre molto importanti: alunno deriva da alere, nutrirsi, come sapere deriva da sàpere, avere sapore gustare assaggiare. assaggiare è la prima azione che ci permette di capire se un cibo ci piace o no, se può essere mandato giù o deve essere rifiutato. l’azione di nutrirsi comporta il masticare, incidere con i denti: infatti si parla di assimilazione di concetti, di masticare o digerire una materia, di incisività.
ho offerto il mio lavoro con un inchino, ringraziando nel rispetto di rughe e calli di tutti coloro che mi hanno insegnato qualcosa o anche solo hanno fatto sì che io imparassi, una miriade di persone che sono coloro che mi circondano e che lasciano sempre in qualche modo segni: se non ci fossero tutti loro, sarei un’altra persona.

L’anteprima nazionale del documentario “Festa” di Franco Piavoli chiude, lunedì 19 settembre 2016, la decima edizione del Festival della Biodiversità. (http://mic.cinetecamilano.it/)
ancora a distanza di anni mi rendo conto che quella cascata di pensieri, che si è trasformata in un fiume in piena appena tolta la diga, che ha percorso dall’india all’argentina passando per mantova e genova, ha ancora almeno due rigagnoli che saltano fuori quando rileggo il mio lavoro. mi commuove, mi emoziona e ancora adesso quando sento e leggo qualcosa che me lo ricorda, penso che potrei aggiungerlo da qualche parte in qualche capitolo, parlarne o solo citandolo. potrebbe ancora entrarci roberto saviano, per esempio, così come hanno trovato posto marco paolini e ascanio celestini: discorso, racconto, denuncia, memoria, orazioni.
la parola, ecco quel che mi interessava davvero. la parola come veicolo di emozioni e di senso.
peppino impastato fu ucciso per le sue parole alla radio, presenti, vive, vere e pericolose.
“le parole sono pietre” disse la madre di turiddu carnivali, quando andarono a intervistarla chiedendo di dire qualcosa su suo figlio.
tutto questo quindi da cosa? partendo dalla tradizione popolare, dalle storie, dai cantastorie…
ecco, proprio un cantastorie, ciccio busacca, cantò proprio ‘lamentu pi’ turiddu carnevali‘ a livorno per il III congresso di cultura popolare, davanti ad un pubblico del quale facevano parte pasolini, pavese, levi, zavattini…
perché nessuno sia schiavo. guarda ancora quaggiù, madiba.
AGGIORNATO L’8 SETTEMBRE 2016