«La mia aspirazione più forte era il teatro, ma i parenti avevano altre idee»

di Iole Vittorini*

Iole Vittorini, a destra, con Laura Lombardo

Iole Vittorini, a destra, con Laura Lombardo

Mio padre era intanto diventato direttore artistico del dopolavoro ferroviario, con l’incarico di formare una filodrammatica. Era l’8 ottobre del 1927 ed Elio era sposato con Rosina dal 10 settembre.

La sede si trovava in piazza S. Lucia, nell’omonimo quartiere dove sorge la chiesa romanica della santa.

Il dopolavoro era fornito di un confortevole Caffè e da una sala da gioco. Il teatro, un vecchio cinema inutilizzato, godeva di una vasta platea e di comodi camerini.

Assunta con molto piacere la carica di direttore artistico, mio padre s’immerse nella organizzazione della filodrammatica, lavorando intensamente alla scelta dei testi che si dovevano rappresentare.

Decise per Goldoni e fermò la sua attenzione su “La locandiera”, la più nota delle commedie goldoniane. Infine selezionò gli attori.

Lui stesso era il capocomico. Incluse tra gli attori anche me e mio fratello Ugo. Ma non si riusciva a trovare “Mirandolina”. Doveva essere bella e brava; giovane e con molto spirito.

Le ventenni siracusane, però, non erano disponibili all’esperienza del palcoscenico per una serie di pregiudizi tra i quali la paura di non trovare marito. Così si provava tutte le sere senza “Mirandolina”.

 Elio Vittorini con Ginetta Varisco

Elio Vittorini con Ginetta Varisco

Una sera mio padre mi fece leggere la parte e la seppi leggere. Non mi ero mai esposta in pubblico, tranne a scuola in qualche ricorrenza. Per l’onomastico delle mie maestre offrivo loro dei fiori e recitavo la poesia di Edmondo De Amicis “La madre”, tanto bene da commuovere chi mi ascoltava.

Al dopolavoro avevo già recitato un monologo scritto da mio padre: “Il giardino d’Italia”.

Mi avevano vestita di bianco e avvolta nella bandiera tricolore. Feci bene quella parte e ricevetti tanti applausi e fiori. Ma mio padre non pensava di farmi recitare regolarmente e soprattutto non pensava che fossi adatta ad una parte impegnativa come quella di “Mirandolina”.

E poi avevo solo quindici anni. Non ero alta, piuttosto magra perché ero stata ammalata di malaria e di tifo per tre mesi, tanto da andare a scuola in carrozza per non perdere l’anno scolastico. Ma ero rifiorita e stavo attraversando un periodo felice per la mia salute.

Convinsero mio padre a lasciarmi recitare. Ebbi un successo clamoroso. Piacqui a tutti: alla massa dei ferrovieri e ai professori mezzo intellettuali che amavano il teatro.

La ragione del mio successo fu dovuta alla sicurezza di avere vicino mio fratello Ugo. Con lui provai gioia a recitare e superai la paura del pubblico.

Ugo aveva studiato dizione sotto la direzione del professore Naro, il suo insegnante di italiano, che gli aveva trasmesso anche la passione del teatro.

Mio fratello recitava benissimo ma non sapeva cantare, come tutti gli Sgandurra che erano stonati.

Il professor Naro ci seguì per tutte le prove, facendo anche il suggeritore. Egli possedeva un’eccezionale cultura latina e greca e avrebbe avuto il diritto d’insegnare in un liceo classico, ma poiché si professava apertamente antifascista rimediò soltanto una cattedra in un istituto tecnico. Era anche appassionato d’arte e conosceva la tecnica di lavorazione del papiro come gli era stata tramandata dal padre e come la trasmise lui stesso alle sue figlie.

Elio ci scrisse che si era sistemato bene presso lo studio dello zio scultore, lo zio Pasqualino.

Ci fece sapere che era entrato in contatto con i Solariani con i quali s’incontrava abitualmente al Caffè “Le giubbe rosse”, dove aveva conosciuto Bilenchi, Montale e tutti gli altri.

Non stavamo più in pena per lui.

La filodrammatica ci impegnava ogni sera. Mettemmo in scena “Gli innamorati”, un’altra commedia di Goldoni e “Lucifero” di E.A.Butti.

Continuavo a far coppia con Ugo.

Diventammo tanto bravi da essere chiamati a recitare anche in altri lavori.

Il liceo classico di Siracusa aveva inaugurato delle stagioni teatrali in concomitanza con le rappresentazioni classiche al Teatro Greco. Gli attori venivano scelti tra gli alunni e tutto il liceo veniva coinvolto nell’evento.

Tra il 1928 e il 1930 vennero messe in scena tre opere in un atto. Mi fu proposta la parte di prima attrice nell’atto unico di Cavallotti, “La figlia di Jefte”, poiché si diceva di me che ero una promettente attrice.

L’invito giungeva inaspettato e inconsueto in quanto gli attori non venivano selezionati in altri Istituti che non fossero il Liceo Classico.

Intervenne mio padre. Era disposto a lasciarmi accettare ad una condizione: di avere accanto a me, nello spettacolo, mio fratello Ugo. Nessuno osò contraddire mio padre, tantomeno io.

Dopo “Mirandolina” e “La figlia di Jefte” seguì “Il dono del mattino” di G. Fargano: una storia divertente che si svolgeva sull’Abetone, dove oltre a recitare mimai un tango con uno sgabello. Fu allora che qualcuno, con estrema generosità, mi paragonò a Dina Galli ed Eleonora Duse. E fu proprio allora che m’invitarono a prendere parte, come corifea, alle rappresentazioni classiche. Ma mio padre che considerava sconveniente la carriera di attrice e me lo permetteva solamente perché ero diretta da lui stesso, mi mandò a Benevento con la zia Peppina che in queste occasioni diventava la mia custode.

Nell’ambiente del dopolavoro cominciarono a circolare, contro i Vittorini, pettegolezzi invidie e gelosie. Mio padre si dimise da direttore artistico dopo l’ultimo lavoro, “I disonesti” di Gerolamo Rovetta e ritornammo tutti a casa.

Ripiombai nell’atmosfera domestica e della stazione, tanto più pesante in quanto avevo goduto di momenti di libertà e creatività che mi avevano fatto sperare in un futuro più corrispondente ai miei desideri inespressi e finalmente diverso da quello fin lì previsto.

In un momento di troppo facile ottimismo pensai che mi avrebbero consentito di studiare alla Scuola di recitazione “Silvio D’Amico” a Roma. Ma non rientrava nella mia volontà dare corso al desiderio che rimaneva invece subordinato alla volontà di mio padre.

La mia aspirazione più forte si era concentrata sul teatro, ma i miei parenti avevano altre idee: o il pianoforte, o il ricamo. Nella mia casa non c’era un telaio per lo sfilato siciliano. Non c’era spazio sufficiente. Tutto lo spazio era stato occupato dalle librerie e dal pianoforte.

In molte case siracusane si poteva trovare un telaio. Le madri vi spingevano le figlie per dare prova di virtù. La lavorazione delle coperte era lunga e laboriosa e acquistava un grande valore di scambio nelle contrattazioni matrimoniali, come il resto del corredo.

Ma io non pensavo al corredo, né al ricamo, né al matrimonio.

Poiché il teatro mi fu vietato, non mi rimaneva che il pianoforte.

Copertina Iole Vittorini*Mi aveva parlato di lei Alessandro Quasimodo, che in casa della famiglia Vittorini ha trascorso molti anni. Leggendo questo libriccino di memorie, ho provato simpatia per questa donna che non ha osato disobbedire, che dedica i propri ricordi al gatto Tobia e fa questa premessa: «Io personalmente, Iole Vittorini, sono una perdente nella vita. Non mi rimane che una casa dove mi sento prigioniera e una catena di ricordi. Lunga quanto la mia vita».

Nell’ultima pagina, Iole cita una lettera del celebre fratello scrittore che, rivolgendosi al padre, dice: «È ora che le donne entrino nella vita attiva del paese; e Iole, giovane com’è ancora, non può rassegnarsi a vivere come una ragazza di altri tempi». 

Iole Vittorini, Mio fatello Elio, Ombra editrice 1989.

(Paola Ciccioli)

AGGIORNATO IL 12 NOVEMBRE 2020

2 thoughts on “«La mia aspirazione più forte era il teatro, ma i parenti avevano altre idee»

  1. ritrovo in queste parole l’atmosfera di Conversazione in Sicilia in cui Elio Vittorini da vita e passione alla casa cantoniera e alla passione paterna per il teatro. Qui il punto di vista è di Iole, di una donna che avrebbe voluto realizzarsi in tutt’altro modo, ma la vita è così…Se la sorella di Shakespeare…

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