Alice B. Toklas: «I am a scandal»

di Fernanda Pivano*

Alice B. Toklas e Gertrude Stein in Francia nel 1944. (Photograph by Carl Mydans / LIFE Picture Collection / Getty) Da: http://www.newyorker.com

Un’altra donna, di ben altra levatura, che si trovò a dover lavorare per sopravvivere in un’età in cui avrebbe dovuto passare le ore a riposare in un giardino fiorito fu Alice B. Toklas. Non era stata addestrata al lavoro: da ragazza aveva avuto una vita agiata e il suo sodalizio con Gertrude Stein si era svolto senza problemi economici. Prima di morire Gertrude aveva fatto un testamento molto preciso nel quale la nominava tutrice della collezione di quadri e curatrice della pubblicazione postuma dei suoi scritti inediti, con una clausola che le consentiva in caso di necessità la vendita di qualsiasi oggetto a lei affidato, sia per il suo mantenimento, sia per la pubblicazione degli inediti.

Alice si mise in testa non soltanto di vivere ma di pubblicare quegli inediti senza toccare la collezione dei quadri. Usò tutto il denaro che le restava – non molto, dopo la malattia di Gertrude – e accettò di pubblicare su riviste a grande tiratura articoli di cucina, a condizione che le venissero retribuiti con generosità. Gli articoli ebbero un tale successo che un editore la invitò a comporre un vero e proprio volume di ricette; e Alice lo scrisse un po’ sotto forma di ricordi, accompagnando a ogni ricetta la circostanza nella quale era stata usata, un po’ sotto forma di pettegolezzo, facendosi mandare da tutti gli amici le loro ricette preferite.

Tremo al pensiero delle ricette che mi convinse a mandarle e che naturalmente mi feci dare dalla ragazza «tuttofare» che mi nutriva in quegli anni; ma dalle mie innocue cotolette alla pizzaiola o pesto alla genovese o gnocchi alla romana almeno non le derivarono guai. Invece Brion Gysin (che più tardi sarebbe diventato noto attraverso il sodalizio con William Burroughs e i loro cut-ups), o forse Paul Bowles (protagonista in seguito di un colossale revival grazie alla riduzione cinematografica che Bernardo Bertolucci fece del suo The Sheltering Sky), le mandò da Tangeri la ricetta di una crema all’hashish e Alice la pubblicò nel testo integrale, in cui veniva consigliata come particolarmente adatta a un pomeriggio di pioggia e si precisava, nella descrizione degli ingredienti, che se non proprio la cannabis sativa almeno la cannabis indica si poteva facilmente coltivare in un vasetto sul davanzale della cucina, come si fa nei paesi meridionali con il basilico, la menta o le altre erbe aromatiche.

Quando il libro uscì, la campagna di Allen Ginsberg per la legalizzazione della marijuana non era ancora incominciata. Il settimanale «Time» pubblicò una recensione anticipata segnalando la ricetta e affermando che non c’era da stupirsi se Gertrude Stein scriveva in quel modo incomprensibile, considerato il cibo che le somministrava Alice.

(…)

Povera Alice, quella ricetta gliela fecero pagare cara. Sul libro aveva lavorato tre anni, e la delusione le riuscì pesante. Per la prima volta gli amici la sentirono dire che non stava bene, cominciarono gli aneddoti dei dottori. Quando prese una polmonite un medico inorridì alla temperatura dell’appartamento in quell’inverno rigidissimo; Alice trovò la scusa che non si potevano accendere i termosifoni elettrici dell’impianto autonomo perché troppo calore avrebbe sciupato i quadri di Gertrude. Poi il dottore si accorse che il pannello più alto della finestra era aperto e rimproverò Alice, disse che bisognava chiuderlo. Alice rispose che né lei né Madeleine, l’anziana governante, potevano arrivare così in alto con una scaletta e il dottore si fece portare la scaletta e salì lui a chiudere la finestra; quando se ne andò Alice gli chiese se doveva pagargli la visita o la manodopera: Alice lo raccontava con il suo giggle. Aveva un curioso modo distaccato di parlare dei suoi guai fisici come se non la riguardassero, come se parlasse di un’estranea un po’ noiosa piena di acciacchi.

(…)

A un certo punto i medici cominciarono a dire che Alice aveva il cuore troppo stanco per sopportare i fanghi, era più prudente che si tenesse l’artrite. Alcuni di noi si preoccuparono di quegli inverni nell’appartamento diaccio di rue Christine, finché John Brown, allora addetto culturale americano a Roma, le trovò una sistemazione in un convento di suore di clausura canadesi: aveva preso accordi con il convento dove era stato accolto Santayana ma Alice si rifiutò di andarvi quando seppe che vi erano ospitate soltanto persone malate. Finì per obbedire e a ottantacinque anni partì per Roma da sola e subito cominciò a lamentarsi che a Roma faceva molto più freddo che a Parigi, naturalmente; e fece disperare le povere suore rientrando in convento a notte fonda e sempre stringendo fra tre dita in un suo modo bizzarro una sigaretta accesa: «I am a scandal», diceva sorridendo, con la grazia e la disinvoltura di chi è abituata a dirlo da una settantina d’anni.

(…)

In realtà il favoleggiato convento era un pensionato per studentesse retto da suore franco-canadesi; e lì, fallito l’incarico, che sarebbe stato molto remunerativo, di tre articoli per l’«Harper Bazaar», cominciò a dettare a una dattilografa i suoi ricordi per Jack Holt, un editore suo amico che dopo averle dato molti anticipi li pubblicò con il titolo What Is Remembered.

Avrebbe continuato a dettarli quando ritornò a Parigi in primavera, da sola, come sempre; ma nell’aprire la porta di casa, ancora lì sulla soglia, si accorse che i quadri erano stati tolti dalle pareti. Prima di svenire arrivò nella stanza dove erano appesi i quadri di Picasso; quando non li vide crollò a terra senza sensi. Si frantumò un femore e così, sempre da sola, quando rinvenne si trascinò giù per le scale per andare dalla portinaia a far chiamare la polizia. «Les tableaux. On a volé les tableaux», le disse prima di svenire una seconda volta.

Rinvenne molte ore dopo nell’ospedale americano e passarono alcuni giorni prima che le dicessero che i quadri non erano stati rubati da un ladro comune ma erano stati tolti senza preavviso dal nipote di Gertrude designato come erede alla morte di Alice. Il nipote riteneva «imprudente lasciare quadri di così grande valore in una casa disabitata» e li aveva depositati nella cassaforte di una banca.

(…)

Mentre Alice era ferma a letto, Madeleine fece il trasloco e gli amici cominciarono a vendere per lei le poche cose che le restavano, mentre alcuni pezzi della sua saga, il grande tavolo fiorentino e il buffet Enrico IV e le poltrone di pelo di cammello venivano pigiati di qua e di là come in un magazzino. L’editore americano continuò a darle degli anticipi e ogni giorno Alice dal letto dettava per quattro o cinque ore i suoi ricordi a una dattilografa, senza poterli rileggere perché ormai aveva gli occhi accecati dalle cateratte. Quando gli amici le dicevano di lasciar perdere, di non stancarsi, rispondeva che doveva dare qualche cosa all’editore in cambio del denaro con cui pagava l’affitto.

Si fece operare, affrontando i rischi della narcosi e del risveglio, per poter correggere le bozze: e corresse le bozze e il librò uscì, con dolore dell’editore che non ebbe più scuse per poterle anticipare dei soldi. Gli editori europei la snobbarono. Alice reagì con dignità, rassegnata ma non sconfitta, e a chi le chiedeva come andava il libro, rispondeva: «It doesn’t sell very well».

Quando andai a trovarla nella nuova casa era ancora immobile a letto: aveva ottantanove anni e sarebbe morta l’anno dopo. Le portai i tre etti di caffè, il vassoietto di marron glacé e la bottiglia di eau de toilette che era ormai abituata a ricevere da decenni; lei mi offrì come sempre dei bonbon che le aveva portato qualche amico e il tè, ma rimasi agghiacciata nel vedere che le sue teiere d’argento, di cui andava silenziosamente orgogliosa e nelle quali preparava le miscele più indimenticabili della mia esperienza, non c’erano più. Mi disse, sforzandosi di ridere, che le aveva vendute con tutti i pochi gioielli che le restavano: anche l’anello ovale di diamanti che era appartenuto a una badessa del Settecento e Gertrude le aveva regalato perché, come alla badessa, nessuno nel farle il baciamano potesse sfiorarle la pelle.

L’indomani girai tutto il giorno per gli antiquari di Parigi disposta a firmare qualsiasi cambiale pur di ritrovare quell’anello e restituirlo ad Alice. Naturalmente non lo trovai e andai a scongiurarla di dirmi il nome dell’antiquario che lo aveva comprato. Mi rispose di lasciar perdere, l’anello non le serviva più. E poi Thornton Wilder le aveva regalato mille dollari, la sorella di Thornton le aveva detto che ne guadagnava tanti da dimenticarseli (e io sapevo bene che Isabella aveva mentito), e adesso avrebbe potuto finalmente fare quei massaggi che se avesse avuto il denaro necessario avrebbe potuto fare subito dopo l’operazione al femore, e così sarebbe finalmente guarita e avrebbe potuto alzarsi e uscire un po’ di casa.

Perché, mi disse, a stare ferma a letto cominciava a ingrassare. E a Gertrude non era mai piaciuto vederla ingrassare.

*Ho cercato di riassumere, senza sciuparlo troppo, il capitolo “Ciao, Alice. 1965” , contenuto nel libro di Fernanda Pivano: Amici scrittori. Quarant’anni di incontri e scoperte con gli autori americani (Mondadori, 1995). Devo averlo comprato appena è uscito, perché nella prima pagina ho scritto “Milano, autunno 1995”, annotando anche di averne spedita una copia alla mia compagna di università Gigliola che allora viveva in Brasile.

Questo bel ritratto di Alice B. Toklas, grande amore di Gertrude Stein, è dedicato alle donne che amano altre donne e agli uomini che amano altri uomini. Nella speranza di riuscire, tutte e tutti, a far finta di non sentire parole come “moratoria” pronunciate in questi giorni da bocche putride in tema di leggi contro l’omofobia.

(Paola Ciccioli)

AGGIORNATO IL 17 MAGGIO 2021

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