Le finte primavere arabe delle donne

di Valeria Palumbo*

Il Cairo

Un’immagine da “La vallée du Sel” di Christophe M. Saber, in programma al Milano Film Festival che si terrà nel capoluogo lombardo dall’8 al 18 settembre 2016. Il film è «ambientato nel bel mezzo del momento politico peggiore dell’Egitto, quando un giovane regista torna a casa a Il Cairo, per la prima volta dall’inizio della rivoluzione, e guarda i suoi genitori fronteggiare una situazione che metterà in crisi la loro fede» (http://www.milanofilmfestival.it/)

Ottimiste. È il meno che si può dire. Adesso che nessuno osa più parlare di Primavere arabe (anzi, il settimanale tedesco Der Spiegel titola esplicitamente “L’inverno arabo”), perfino chi si era dilungato a raccontare delle donne protagoniste delle proteste, dalla Tunisia all’Egitto, dallo Yemen alla Siria, tace sbigottito. Dov’era il trucco? Mentre scrivo i (minoritari) sostenitori di uno Stato laico e i Fratelli musulmani si fronteggiano in Egitto; la Siria, schiacciata dalla guerra civile, assiste all’avanzare di gruppi ribelli integralisti; la Tunisia difende a stento le sue antiche conquiste laiche, soprattutto a favore delle donne, davanti a una crisi economica che si fa sempre più grave. L’Algeria, nelle elezioni locali di fine 2012, ha rinnovato la fiducia al Fronte di liberazione nazionale, ma nessuno è disposto a credere alla libertà di quei seggi. E il gran numero delle candidate proposte è stato visto soltanto come uno specchietto per le allodole. Della Libia non parliamo nemmeno: una brutta guerra tra clan rivali… è rimasta una brutta guerra tra clan rivali. Insomma è tramontato un sogno.

Sempre che il sogno che covava sotto la cenere delle dittature fosse quello di democrazie laiche e liberali, sia pure di stampo “islamico”. L’impressione è che ci fossimo sbagliati. Non solo noi occidentali. Ma anche quelle minoranze laiche e acculturate del mondo musulmano che, dal 1979 in poi, ovvero dalla rivoluzione oscurantista di Khomeini (appoggiata con speranza da molte donne), non hanno fatto bene i conti con la realtà e i radicatissimi valori delle loro masse.

Eppure, da quel remoto 1979, sono cambiate moltissime cose e il mondo arabo da allora ha espresso una varietà di tendenze che richiamano le oscillazioni occidentali (anche noi, appunto, abbiamo integralisti cattolici e protestanti, neo-nazisti e pirati informatici, etc etc.) e lasciano intuire insospettabili aperture. Certo il clamore sollevato nel novembre scorso sui media occidentali dalla foto senza velo postata su Facebook da Dana Bakdounis, una ventunenne siriana, è superiore all’effettivo peso delle internaute emancipazioniste musulmane. The uprising of women in the Arab world, la pagina Facebook che l’ha difesa, conta (al 6 dicembre) poco meno di 78.500 “mi piace”. E il fatto che una regista saudita, Haifaa Al Mansour, sia riuscita a girare un film, La bicicletta verde, a Riyadh, pur avendo dell’incredibile, visto che in Arabia Saudita non esistono cinema e i film si vedono solo a casa, non rappresenta una tendenza di massa.

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Insomma, la domanda “a che punto sono le donne nel mondo musulmano del Vicino Oriente?” non ha una risposta semplice. E non perché, come sostengono alcuni gruppi femministi musulmani, l’emancipazione sotto la mezza luna ha caratteristiche diverse da quelle che ha assunto nel resto del mondo. Con buona pace anche delle nostre femministe cattoliche, l’emancipazione e la parità si basano su alcuni diritti-cardine che, valendo per gli uomini, non possono che valere anche per le donne. Ma perché già soltanto la geografia femminile di piazza Tahrir, al Cairo, rivela la variegata galassia delle tendenze, dei valori e delle aspettative.

Premessa: la mobilitazione femminile c’è stata davvero. Ma non è un fatto recente. Le donne, sia pure quasi sempre in ruoli tradizionali, hanno partecipato a molti movimenti anticolonialisti, primo fra tutti quello algerino. Fatiha Bouhired e sua nipote Djamila ebbero un ruolo importante nella battaglia di Algeri. La scrittrice Assja Djebar ha dedicato un romanzo, La donna senza sepoltura, a Zoulikha, l’eroina della città di Cesarea, torturata e uccisa dai francesi nel 1957.

La formazione delle Sorelle musulmane risale addirittura al 1936 e al gruppo delle Donne musulmane creato dall’energica Zaynab al-Ghazali (1917-2005), a sua volta discepola di Sayyid Qutb, ideologo dei Fratelli musulmani. Le femministe laiche egiziane sono ancora più “antiche”: quando la poliedrica intellettuale futurista Valentine de Saint-Point (unica donna ammessa a una seduta del Parlamento di Damasco in cui si discuteva di Costituzione) esortò le arabe a cercare una loro via all’emancipazione, le femministe cairote si infuriarono. Negli anni Venti il Wafd, uno dei tre partiti egiziani, presentò un programma che prevedeva la parità tra i sessi, merito anche della moglie del leader Saʿd Zaghlūl, Sāfiya, fieramente femminista, e di Hodā Shaʿrāwī, grande attivista politica e prima donna a togliersi pubblicamente il velo nella stazione ferroviaria del Cairo, dopo essere tornata da Roma, nel 1923, dove aveva partecipato al IX Congresso dell’Alleanza internazionale pro suffragio.

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Hodā Shaʿrāwī «è stata un’attivista egiziana, pioniera del movimento femminista egiziano e arabo (Minya, Egitto, 23 giugno 1879 – Il Cairo, 12 dicembre 1947)

Così come intensa è stata la partecipazione politica delle iraniane: alcune contro lo Shah. Altre in sostegno alle sue (consistenti) riforme a favore delle donne. Reza Shah aveva già vietato per decreto nel 1936 il velo. Nel 1963 Muhammad Reza Shah concesse il diritto di voto alle donne e insistette sull’istruzione femminile. Il paradosso è che il suo sogno si è realizzato proprio sotto il regime post-khomeinista tanto che, nel settembre scorso, nel tentativo di ridurre la percentuale femminile degli studenti universitari dal 65 al 50%, le autorità hanno vietato alle ragazze 77 corsi di laurea. La motivazione è paradossale: il ministro dell’Istruzione superiore Kamran Daneshjoo ha parlato dell’esigenza di “bilanciare” il numero di iscritti tra i sessi, una sorta di “quote azzurre”.

In verità i brillanti risultati ottenuti dalle ragazze (non solo ai test d’ammissione ma anche in sede di laurea) creavano non poco imbarazzo: molte professioni sono precluse alle donne e quindi, per esempio, il 98 per cento delle laureate in ingegneria mineraria all’Università di Isfahan risultava disoccupata, in un Paese che ha un bisogno disperato di ingegneri minerari.

I risultati sul fronte scolastico appaiono incontrovertibili e generali: non a caso le ire dei talebani si concentrano proprio sulla crescente diffusione dell’istruzione femminile. E che la coscienza sia, almeno in parte, cambiata lo dimostra l’indignazione suscitata dal tentato omicidio di Malala Yousafzai, la quattordicenne pakistana che rivendicava banalmente il suo diritto ad andare a scuola (cliccando su Google il suo nome appare 6,2 milioni di volte).

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Anche “Under the shadow” di Babak Anvari (2016) verrà presentato nel corso dell’edizione 1+20 del Milano Film Festival. «Sullo sfondo del conflitto iraniano-iracheno degli anni ’80, una donna ripudiata dalla società a causa degli ideali politici esternati durante la rivoluzione khomeinista deve proteggere se stessa e la figlia dalle forze malefiche che si annidano tra gli anfratti dell’edificio dove abita, minacciato dalle bombe» (http://www.milanofilmfestival.it/)

Meno facile, per i nostri canoni, è accettare alcune forme di militanza violenta: le “martiri” palestinesi e cecene (quest’ultime uscite, in realtà, di scena dopo la feroce normalizzazione di Ramzan Kadyrov), anche se riprendono una tradizione inaugurata dalla tigri Tamil a Sri Lanka, sono apparse come un’aberrante novità. Non solo, ma a far bene i conti, sembrerebbe che, durante le manifestazioni delle “Primavere arabe” a mobilitare le donne in piazza siano stati più i movimenti oltranzisti e conservatori che quelli laici e liberali. Intendiamoci: non si tratta di una novità. Era successo lo stesso in Occidente a inizio Novecento: secondo la Treccani del 1938 le iscritte ai fasci femminili erano 50.161 nel giugno 1927; diventarono 737.422 al 28 ottobre 1937. La fonte era allora di parte e alle donne italiane l’iscrizione al Pnf serviva spesso per sopravvivere, ma, per fare un confronto, quelle iscritte al Partito comunista nel 1948 arrivavano a stento a 4mila.

In ogni caso, per tornare all’Egitto, le proteste contro il tentato golpe autoritario e integralista del presidente Muḥammad Mursī hanno rivelato che la presenza femminile progressista in piazza è tutt’altro che irrilevante. E benché si sia forse esagerato l’effetto della Rete, è senz’altro vero che Internet abbia offerto a tutti i giovani arabi, e in particolare alla ragazze, di rompere il loro esilio. “L’invenzione” di una nuova lingua franca araba che permette ai bloggers di intendersi dal Marocco allo Yemen, come ha spiegato molto bene lo scrittore italo-iracheno Younis Tawfik, autore, fra l’altro, del romanzo “La ragazza di piazza Tahrir”, ha costituito davvero una svolta. Quella “piazza” che alle ragazze viene così spesso negata, quella voce che rimane soffocata dietro i veli, attraverso il web assumono un nuovo peso: le ragazze partecipano attivamente a questa koiné virtuale.

Con quali risultati? Questo è più difficile da prevedere. La buona legge tunisina sulle quote rosa per le liste elettorali, che ha imposto l’alternanza di un candidato femminile e di uno maschile, ha portato nel Parlamento post-Rivoluzione dei gelsomini 60 deputate, che rappresentano il 27 per cento dell’Assemblea. Quasi tutte sono, in accordo con la vittoria del partito Ennahda, di impostazione islamica. E l’effetto si è subito visto sui tentativi di modificare la Costituzione limitando i diritti riconosciuti alle donne da Habib Bourguiba, padre-padrone dell’indipendenza tunisina.

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Un’altra immagine di “Under the shadow”: il film del regista iraniano Babak Anvari è in concorso ed è una delle nove anteprime nazionali del Milano Film Festival (http://www.milanofilmfestival.it/)

In ogni caso l’aumento del tasso di istruzione delle bambine, la diminuzione del numero di figli per donna e la contrazione dell’endogamia, avvertono che in tutto il mondo musulmano qualcosa è cambiato.

Nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo il tasso di natalità è sceso da 6,2 figli per donna nel 1980 a 3,2 nel 2002. La Tunisia ha raggiunto un tasso di fertilità simile o inferiore alla media mondiale con 2,6 figli nel 2002. Questo fa la differenza, forse addirittura più di un Premio Nobel per la pace, come quello assegnato alla velatissima e coraggiosissima Tawakur Karman, che si batte da anni per i diritti umani e soprattutto per quelli della donna in Yemen. Ovvio: i modelli e gli esempi sono sempre importanti. Ma i Paesi musulmani non hanno mai scarseggiato di eroine. Adesso, proprio come in Occidente, a fare la differenza sarà l’onda d’urto delle masse. La scommessa è aperta. La fallita Rivoluzione verde in Iran, tra 2009 e 2010, sostenuta soprattutto dagli studenti e, tra loro, in modo particolare, dalla ragazze, lascia intendere che non è così semplice, neanche quando si è tanti in piazza, abbattere i muri della discriminazione. Spesso le tanto agognate libere elezioni si rivelano un boomerang. Ma, al contrario da quanto sostenuto incredibilmente a inizio dicembre dall’economista Alberto Alesina su La lettura del Corriere della Sera, non è vero che la lotta per l’emancipazione femminile sia un «superficiale dirigismo culturale» o, peggio, «un pericoloso dirigismo culturale». Se è vero che il 95 per cento degli egiziani risponde sì alla domanda «Siete d’accordo con l’affermazione che quando i posti di lavoro sono scarsi gli uomini abbiano più diritto ad essere assunti rispetto alle donne?» e che le egiziane hanno tra i più bassi tassi d’occupazione al mondo (era del 26,6 per cento nel 1990 ed è scesa al 23,9 per cento nel 2008), è anche vero che piazza Tahrir non è un fenomeno d’élite. Piuttosto è vero che il cammino è lento: quando Hodā Shaʿrāwī, nel 1923, si tolse il velo, neanche le italiane potevano votare. Oggi, benché l’Italia resti al 97esimo posto nell’indice della parità mondiale, la differenza con le nostre dirimpettaie è evidente.

Valeria Palumbo, giornalista e scrittrice, è stata tra l’altro caporedattore centrale de L’Europeo, scrive per il Corriere della sera e collabora con vari giornali e siti Internet, tiene lezioni universitarie, scrive reading teatrali e conduce corsi e incontri a festival storici e letterari. Fa parte della Società italiana delle storiche e della Società italiana delle letterate e tra i numerosi libri da lei pubblicati ricordiamo Prestami il volto (edizioni Selene, 2003) sulle compagne di artisti famosi, vincitore del premio Il Paese delle donne (2006). Nel 2013 ha pubblicato Geni di mamma per Odradek e due ebook: Donne di Alessandro Magno (Enciclopedia delle donne) e Quando l’arte è donna. Tetralogia teatrale (Cendon Libri). Nel 2016: E fummo liberi, 1943-1945 (Sandro Teti).

Valeria Palumbo è stata invitata nel 2013 da Paola Ciccioli a tenere alcune lezioni al corso di Psicologia delle influenze sociali all’università Bicocca di Milano. Questo articolo è stato scritto appositamente per il nostro blog dopo una sua lezione.

AGGIORNATO IL 5 SETTEMBRE 2016

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