Dal blog segmenti di Margherita Rinaldi

Scarpe preziose previenti dal Museo Stibbert di Firenze: saranno esposte al Museo del tessuto di Prato nell’ambito della mostra “Il capriccio e la ragione. Eleganze del Settecento europeo”, in programma dal 14 maggio 2017 al 29 aprile 2018. Queste scarpe italiane risalgono al 1760-1770 (Gros de Tours liseré broccato, in seta, filo d’oro e d’argento, frisé e lamellare con tacco a rocchetto e punta arrotondata. Fodera in lino, calcagno e sottopiede in pelle di capretto, suola e sottotacco in cuoio) http://www.museodeltessuto.it/settecento/
Come la capisco, Maria Grazia Sinibaldi*, così affezionata al suo numero 38. L’ho sempre pensato anche io: il 38 è il numero delle scarpe chic. E io di scarpe me ne intendo. Ho un’esperienza che viene da lontano, e che mi sono conquistata sul campo.
Ho cominciato da piccola, con i racconti di mia nonna: “Avevamo – mi diceva spesso con un’espressione didascalica sul viso – un paio di scarpe che dovevano durare per tutte le stagioni. Te le facevano fare in crescenza, così che il primo anno c’era spazio per più di una calza di lana d’inverno e d’estate sembravano ciabattoni. Poi diventavano giuste. Nel frattempo si erano già sfondate più volte e si era provveduto a risuolarle alla bell’e meglio, per farle durare fino alla loro ultima stagione: l’ultima estate, quando, ormai troppo corte, venivano tagliate in punta e indossate con le dita di fuori”.
Mi facevano tanto pena i bambini di quei racconti: che scarpe brutte avevano! Veramente, passando di racconto in racconto, non mi piacevano tanto neanche le scarpe famose delle favole. Cenerentola, per esempio: non ho mai capito come faceva a ballare col piede incastrato nel cristallo. E poi quel piedino così piccolo mi sembrava innaturale. Mi piaceva di più il gatto con gli stivali, perché nel libro che avevo io c’era disegnato un modello veramente interessante: sembravano morbidi, solidi, intonati col resto dell’abbigliamento. Mi affascinava, inoltre, l’idea che uno potesse ricevere degli stivali come regalo prezioso. Che dire, poi, dei scarp del tennis di Jannacci? Non capivo quasi niente di quella canzone in milanese, ma il ritornello sì, lo canticchiavo spesso: El purtava i scarp del tennis, el parlava de per lu. Rincorreva già da tempo un bel sogno d’amore…
Quando io ero piccola a casa mia c’era ancora una forte memoria del tempo lontano in cui la gente aspirava, come maggiore fortuna, alla salute e “a un par de scarpe nove”. Così, pure se ci trovavamo in pieno boom economico, a scopo educativo per me erano previsti solo due paia di scarpe: uno per l’inverno e uno per l’estate. Inoltre andava molto di moda far mettere le scarpe ortopediche ai bambini. Il risultato fu che le mie scarpe, a parte la prima settimana dopo l’acquisto, erano sempre orrende: vecchie, rovinate, brutte (scarponi neri di cuoio col plantare!) e soprattutto, quasi sempre, della forma e del colore sbagliato rispetto ai vestiti che indossavo. Eh sì, perché io, che ho avuto sempre una passione per le scarpe, quando le andavo a comprare non tenevo conto del fatto che dovevano essere una specie di passe par tout. No, mi innamoravo dei modelli e dei colori più strani. In quinta elementare, per esempio, a primavera mi sono fatta comprare un paio di ballerine rosso corallo, con due cinturini da allacciare incrociati sul davanti, tenuti fermi da due fibbiette dorate. Meravigliose. Ma ve le immaginate con i pantaloni rosa? O gialli? O celesti? O con i jeans?
Il primo paio di scarpe da ginnastica l’ho avuto in prima media: Adidas bianche con le strisce blu. Avevo svoltato. Era giugno, dovevo fare la cresima e per l’occasione ero riuscita a farmi comprare anche un paio di ballerine di camoscio color carta da zucchero con il cinturino alla caviglia. Dunque per la prima volta avevo tre paia di scarpe in una sola stagione: ballerine, sandali e scarpe da tennis. Mettevo i jeans apposta per vedere l’effetto che faceva e me ne andavo in giro compiaciuta. Da lì ho cominciato a insistere con mia madre per le scarpe. E mia madre ha cominciato a cedere. Così, piano piano, sono passata da un eccesso all’altro, fino a che, oggi, ho in casa quattro scarpiere. Tre sono le mie e l’altra se la dividono mio marito e i miei due figli. Ho scarpe di tutti i colori e di tutti gli stili, con tacchi da zero a dodici, ma alla fine indosso quasi sempre i modelli più sobri, forse ancora un po’ segnata dalla bizzarria delle mie scelte di bambina.
C’è stato, però, un altro passaggio importante. Quando il mio piede smise di crescere si fermò troppo presto: al numero 35. Niente di scandaloso rispetto alla mia piccola statura, ma non mi piaceva. Non c’erano sufficienti modelli da scegliere. Alcuni, poi, stavano veramente male su un piede così corto. E io odiavo, neanche tanto cordialmente, tutti quelli (e non erano pochi) che si stupivano di queste così piccole dimensioni. Stavo quasi per rassegnarmi quando il mio piede riprese a crescere. Sì, lo fece: immediatamente dopo la mia prima gravidanza il 35 non mi andava più, e a volte era stretto pure il 36. Così oggi, anche se non sono arrivata al 38, misura che io considero perfetta per un piede femminile, posso serenamente vantarmi, tra me e me, del mio bravo 37.
Ironia della sorte, poi, ho una figlia che porta il 40, e che farebbe di tutto per tornare indietro, almeno di un paio di numeri. Una figlia alla quale, ovviamente, non ho mai fatto mancare le scarpe, di tutti i tipi e di tutti i colori, né in inverno, né in estate. E sapete cosa indossa lei? Sempre, e solo, scarpe da tennis.
*che ho avuto il piacere di leggere sul blog Donne della Realtà
AGGIORNATO IL 6 APRILE 2017
Cara Margherita, ma perché noi donne (moltissime, almeno) siamo fissate con le scarpe? Ci saranno senz’altro degli studi in proposito, bisognerebbe indagare. Per quanto mi riguarda, ti basti sapere che nel 1996 ero negli Stati Uniti e un mio amico di Milano aveva affittato l’allora mia casa a un suo amico (diventato poi anche mio. Sto divagando?). L’inquilino a tempo, perlustrando il mio appartamento, arrivato nello sgabuzzino contenente le scarpiere, fissando le pile delle scatole, aveva chiesto: «Ma quante persone abitano in questa casa?». Casa da single, ovviamente.
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