Matisse, La Danza
di Marina Severini*
C’è ancora posto nel nostro mondo globalizzato, nel nostro tempo veloce, per la psicoanalisi e l’inconscio? L’interrogativo ha una sua pertinenza e si può provare a rispondere innanzitutto sbarazzandosi di un cliché consolidato, quello per cui la psicoanalisi è solo una pratica clinica confinata nello studio dell’analista. Certo è anche questo, ma nello stesso tempo la psicoanalisi – in particolare il suo orientamento lacaniano – non si sottrae al confronto con il proprio tempo, interrogandolo e lasciandosene interrogare.
Cosa ne è dei soggetti attuali spinti a essere solo consumatori che corrono dietro a un oggetto sempre nuovo – accompagnato dalla promessa del godimento che dovrebbe derivarne? Spinti a lasciare latente la loro singolarità per riconoscersi nello standard… dell’identità virtuale?
Rispetto al discorso dominante la psicoanalisi è un discorso, come diceva Lacan, controcorrente, perché valorizza il soggetto in quello che ha di più singolare, nella sua differenza irriducibile.
L’essere umano è per Lacan un corpo parlante, un corpo che cerca di dirsi e lo fa inventandosi qualcosa per compensare la perdita che lo abita; l’invenzione va dall’arte al… sintomo.
Certo il sintomo è una soluzione che fa stare male ed è per questo, per la sofferenza che ne deriva, che un soggetto chiede aiuto; è in questo momento che diventa fondamentale la risposta che trova nell’interlocutore che incontra.
In generale si tende infatti a estirpare o soffocare, in ogni caso a far tacere il sintomo (con i farmaci, con le mille tecniche – psico e non – che il mercato offre); la posizione dell’analista è invece quella di lasciarlo parlare.
Freud è partito così con le strane malate del suo tempo, le isteriche, che presentavano paralisi o cecità senza avere malattie organiche. Il mondo medico, non riuscendo a venirne a capo, le aveva qualificate “simulatrici”; Freud invece decide di ascoltarle e scopre che quei sintomi corporei erano un modo per dire qualcosa non altrimenti dicibile, scopre che l’inconscio parla fabbricando sintomi, sogni, lapsus, motti di spirito e poiché l’inconscio è singolare ciascun soggetto inventa con la farina del suo sacco, con quello che ha di più suo, anche se non lo sa.
Freud scopre dunque con sua sorpresa che il corpo parla e che le parole producono effetti nel corpo, ad esempio i sintomi si sciolgono: è “la cura della parola”, come dirà una delle sue prime pazienti. E i sintomi di oggi? Nella clinica contemporanea troviamo persone depresse, bambini iperattivi, eccessi alimentari, esplosioni di violenza, dipendenze varie, esistenze caratterizzate da senso di vuoto e inutilità, da una specie di anestesia affettiva alternata a crisi emotive (attacchi di panico) apparentemente immotivate, ricerca frenetica di forme immediate di godimento che lasciano però puntualmente alle prese con una conseguente insoddisfazione e/o depressione.
I legami umani sono instabili, frammentari, quando non solamente virtuali; la scommessa della psicoanalisi è quella di una clinica che metta al centro la relazione: offrire uno spazio di parola e di ascolto significa offrire al soggetto la possibilità di dare un senso a certe questioni della sua esistenza – fino a quel punto di non senso che costituisce quell’intimità estranea che ciascuno è per se stesso. Non tutto può essere detto, non tutto può essere saputo e quello che rimane fuori presa può dar luogo a nuove invenzioni e può essere messo in gioco in legami sociali più vivibili.
* Marina Severini, psicoanalista, è responsabile per Macerata di Icles (Istituto di specializzazione in psicoterapia). Questo suo intervento fa seguito alla conferenza tenuta da Maria Teresa Maiocchi, docente di Psicologia dinamica all’università Cattolica di Milano, che si è tenuta il 23 marzo alla Bottega del libro di Macerata. Sono in programma altri “Incontri con la Psicanalisi” e ne daremo notizia su questo blog