di Maria Elena Sini
Sembra una signora come tante, gli occhi azzurri vivaci e penetranti sotto il caschetto di capelli grigi e una innata eleganza, ma Marisa Ombra, classe 1925, non è una donna comune, ha alle spalle una storia importante: di famiglia operaia antifascista, inizia l’attività clandestina collaborando alla preparazione degli scioperi del marzo ’43 e dopo l’8 settembre diventa staffetta nelle brigate partigiane garibaldine.
Nell’incontro con la cittadinanza organizzato dall’Anpi, con la collaborazione dell’Arci e NoiDonne 2005, che si è tenuto a Sassari il 30 gennaio 2013 nell’Aula magna dell’Università, questa donna minuta e apparentemente fragile ha raccontato con semplicità, come se fosse una cosa normale, la sua vita leggendaria.Ha sottolineato più volte che la sua scelta di aderire a 17 anni alla Resistenza pareva in quel momento storico giusta, normale, necessaria, dettata forse da un desiderio di sfida, dallo spirito di avventura, dalla temerarietà e dall’incoscienza della gioventù, ma animata dalla consapevolezza che la lotta partigiana avrebbe cambiato la sua vita e quella di molte persone.
Ha raccontato che sin dall’infanzia, prima ancora di acquisire una coscienza politica, aveva un’avversione per il fascismo partendo da un rifiuto “estetico” perché non sopportava gli uomini che indossando le ridicole divise diventavano immediatamente tronfi e arroganti, trovava insopportabili i riti collettivi e le stupide adunate. Ma in una sorta di indifferenza diffusa molti sono stati vittime dell’incantamento, si sono lasciati soggiogare dal carisma di chi raccontava meglio i fatti senza interrogarsi sulla consistenza delle proposte che venivano avanzate, permettendo che divenissero lecite cose che prima facevano vergognare. Molti italiani hanno assorbito l’ideologia fascista sentendosi dalla parte dei forti e dei vincenti e poco a poco le folle hanno accettato che alle idee di grandiosità si accompagnasse la ferocia e lo squadrismo. In quel contesto l’etica e i principi morali diventarono “moralismo” e persero la loro forza.
Con grande lucidità ha fatto un parallelo con la situazione attuale dove venti anni di berlusconismo, che hanno incarnato in modo visibile le tendenze deteriori radicate nella società italiana, hanno avvelenato il nostro Paese permettendo l’esaltazione della ricchezza facile acquisita con la furbizia e l’accettazione delle retoriche promesse immancabilmente smentite. Per questo ha ripetuto che è importante ricordare, per tracciare una strada da seguire ed evitare di commettere gli stessi errori.
Dopo l’8 settembre 1943 alcuni aderirono alla Repubblica di Salò, molti rimasero in quella che definisce una zona grigia, ma una minoranza, circa 300mila persone, scelsero di andare in montagna a combattere e ha ribadito che spesso sono le minoranze che fanno la storia.
Ha messo in evidenza che in quegli anni in Italia si erano accettate cose inaccettabili: dal 1935, inizio delle guerra di Etiopia, sino al 1943 il Paese aveva già sopportato circa dieci anni di guerra, bombardamenti, fame, freddo e, in quella situazione, la sua scelta di aderire alla Resistenza non fu un atto eroico ma piuttosto la risposta a una sfida, la voglia di esserci in un momento fondamentale per il Paese.
Ha approfondito il ruolo delle donne nella lotta partigiana ricordando che, mentre gli uomini erano obbligati alla guerra (molti di coloro che aderirono alla Resistenza erano soldati che si erano tolti la divisa o giovani renitenti alla leva), per le donne, che durante la guerra spesso si erano assunte responsabilità di capofamiglia, fu effettivamente una scelta che portò a una rottura culturale di carattere epocale. Se gli uomini si aspettavano anche in quell’occasione una riproposizione dei ruoli consueti, le donne vissero questa sfida come il momento per ribadire la loro uguaglianza nella diversità.
Alcune imbracciarono le armi, altre, come lei, divennero staffette. Un compito forse ancora più pericoloso perché agivano da sole, ricevevano un comando e poi dovevano attuarlo in piena autonomia facendo ricorso al coraggio ma anche al buon senso, alla capacità di comprensione delle persone e di mediazione tipica delle donne, alla fantasia, alla duttilità, al fascino femminile per ingannare il nemico. Ha ricordato con leggerezza l’allegria di quegli anni, la sensazione di vivere con pienezza, la consapevolezza di partecipare alla costruzione di un nuovo mondo, ma anche il rischio, il pericolo che portarono molte donne alla tortura e alla morte. Tra queste ha citato Anna Cherchi, deportata a Ravensbruck, e qui la sua voce garbata ma ferma si è rotta: Marisa si è tolta gli occhiali ed è apparso il suo sguardo velato di lacrime.
Finita la guerra ha cominciato il lavoro che definisce più faticoso: Marisa Ombra infatti, operando in particolare nell’Udi, ha dedicato la sua vita alle lotte per l’emancipazione femminile per ottenere i diritti per le donne che dopo aver partecipato alla liberazione del Paese non hanno voluto più accettare quello che esisteva prima. Ha descritto la situazione del dopoguerra ricordando che le donne non avevano diritto al voto, non esisteva il divorzio né la possibilità di interrompere una gravidanza, il diritto di famiglia allora considerava la donna come una proprietà del marito, non c’era parità salariale e alle donne erano precluse alcune professioni (avvocato, magistrato) e non era possibile accedere agli alti gradi nella Pubblica amministrazione. Ci sono voluti cinquanta anni di lotta perché nel 1996 il reato di violenza sessuale venisse riconosciuto come un “delitto contro la persona” e non un “reato contro la moralità pubblica e il buon costume”… Conclude amaramente dicendo che c’è ancora da fare perché oggi formalmente le leggi garantiscono i diritti ma non si è riusciti a cambiare l’idea della donna nella mente di molti uomini che continuano a pensare di poter esercitare il possesso nei confronti delle loro mogli, figlie, fidanzate, compagne.
Una lezione di vita dove le parole libertà, dignità, responsabilità sono state ripetute più volte da una persona che ha messo in gioco la sua vita perché noi oggi potessimo vivere in un mondo dove questi valori avessero piena cittadinanza e potessimo godere di diritti un tempo negati. E tristemente ho pensato all’uso sconsiderato che spesso oggi se ne fa attraverso comportamenti che danno per scontato quello che invece è il frutto di amore, sacrificio, impegno.
AGGIORNATO IL 19 APRILE 2015
L’articolo è molto bello. Ne ho inviato copia alla segretaria cittadina dell’ANPI. Lei come me si è iscritta all’associazione non come ex Partigiana ma come Antifascista
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Caro Silvio ti ringrazio per l’attenzione che mi riservi..Io non sono iscritta all’ANPI perché pensavo di non aver le carte in regola, considerando che io non ho combattuto come Marisa e tante altre persone coraggiose e determinate come lei, ma in questo incontro ho scoperto che, come te, ci si può iscrivere in quanto ANTIFASCISTI e lo farò anch’io. A presto
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Sì, una lezione di vita. Ne abbiamo bisogno oggi di figure così.
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