“Si potrà parlare di primavera araba quando le donne non saranno discriminate”

L’avvocatessa iraniana e premio Nobel per la pace Ebadi parla delle rivolte in Egitto, Tunisia e Libia e del suo Paese. “Vi prego, non firmate accordi e non intrattenete relazioni commerciali con l’Iran” di Rosalba Castelletti

VARSAVIA – “Vi prego, non firmate accordi e non intrattenete relazioni commerciali con l’Iran”, a lanciare un accorato appello all’Unione europea e alle aziende occidentali è l’avvocatessa iraniana e Premio Nobel per la pace Shirin Ebadi. Lo fa a margine della sesta edizione delle Giornate europee per lo sviluppo, il principale forum della Commissione europea sulla cooperazione, in corso a Varsavia. Prima donna magistrato in Iran costretta a rinunciare al suo scanno all’indomani della Rivoluzione islamica del 1979, punta il dito in particolare contro Ericsson. “Ha fornito al governo iraniano un programma per monitorare le conversazioni telefoniche e gli sms degli iraniani”, dice invitando tutti a fare pressione sulla società di telecomunicazioni svedese. “Dopo la mia precedente campagna  –  ricorda  –  Nokia-Siemens ha annullato tutti i contratti con l’Iran e ha lasciato il Paese”.

Professoressa Ebadi, qual è invece l’opzione migliore per fare pressione sul governo iraniano? 
“Sono contraria sia all’intervento militare sia alle sanzioni economiche perché entrambe colpiscono la popolazione. Per non tralasciare che darebbero mano libera al governo per opprimere gli attivisti democratici in nome della sicurezza nazionale. Sono semmai a favore di sanzioni politiche. Credo che le sanzioni debbano essere dirette contro le persone direttamente responsabili della repressioni e non contro la popolazione”.

Cosa pensa invece dell’approccio dell’Occidente nei confronti degli altri regimi arabi?

“Contesto il fatto che abbia sostenuto la ribellione libica e non le rivolte in Bahrain o Yemen. Dopo le dimissioni del presidente Ali Abdallah Saleh, sembra che la rivolta yemenita abbia avuto successo, ma in Bahrain la gente continua a essere uccisa e l’Occidente continua a restare indifferente”.
E riguardo alla Siria potrebbe fare di più?
“Sono state avanzate diverse proposte alle Nazioni Unite, ma Cina e Russia hanno sempre votato contro. E gli Stati Uniti e altri Paesi europei hanno spesso invitato Bashar al-Assad a dimettersi. Che è quello che avevano detto a Mubarak e Ben Ali. Loro hanno ascoltato, ma Assad non ascolta”.

Qual è la sua opinione sulle primavere arabe?
“Sono contraria all’uso della parola ‘primavera’ perché rovesciare un dittatore non esclude che il suo posto non verrà preso da un altro. E quando parliamo di democrazia non possiamo chiudere gli occhi su quella metà della popolazione, ossia le donne, che continua a essere oppressa. Si potrà parlare davvero di ‘primavera’ solo quando le donne arabe non subiranno più discriminazioni”.

Non sembra ottimista…
“Il cambiamento avverrà, ma ci vorrà tempo. Per questo è troppo presto per usare la parola ‘primavera’”.

La preoccupano forse i consensi raccolti dai partiti d’ispirazione islamica in Tunisia e in Egitto?
“La differenza non è tra governi islamici e non. Se ci si guarda intorno, ci sono tanti Paesi secolari, ma non democratici, come in America latina e Africa. Mentre in Turchia è al potere un governo islamico, ma moderato. Perciò non temo che al potere ci siano partiti islamici, ma che ci siano partiti non democratici”.

E cosa pensa di partiti come Ennahda che ha conquistato la maggioranza nell’Assemblea costituente tunisina?
“Bisogna vedere come andrà nel lungo termine. Anche noi iraniani abbiamo avuto la nostra rivoluzione nel 1979, ma abbiamo solo sostituito un dittatore con un altro e gli iraniani continuano a lottare per la libertà. Spero che le neodemocrazie nordafricane imparino dalla lezione iraniana a non smettere di lottare per la democrazia”.

Crede che ci sarà presto una primavera persiana?
“Sì ci sarà, presto o tardi. Anzi, non è mai cessata. La sollevazione popolare in Iran è iniziata nel 1979 e continua perché la nostra gente non ha smesso di opporsi all’attuale governo”.

La Repubblica – 16 dicembre 2011

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