La sopravvissuta del maglificio della strage di Barletta: «Crepe? Zitti o qui chiudono»
di Marco Imarisio
BARLETTA (Bat) – Oltre i lumini e le corone di fiori disposte sul marciapiede, c’è la porta. I furgoni che portavano i sacchi con le felpe e le tute in stireria, cinquecento metri più in là, al fondo di via Roma, si fermavano lì davanti. Adesso il vetro è scheggiato, bisogna sollevare l’anta dai cardini, e girarla fin che si può, un’apertura di pochi centimetri prima di incontrare il muro di tufo che ha ucciso le quattro operaie di Barletta e la piccola Maria.
Il maglificio Cinquepalmi è diventato il simbolo della Cina che verrà, di un lavoro nero, malpagato, duro e rischioso. Era uno stanzone, la visura camerale lo mostra come un rettangolo lungo e stretto, dai soffitti alti appena due metri e mezzo, ma negli anni erano arrivate parecchie modifiche, compresa l’annessione di un locale sotterraneo che era diventato un deposito merce. Il soffitto era attraversato da una fila di lampade al neon che illuminavano ogni postazione. Ce n’erano sei, per ogni tavolo una macchina da cucire, vecchi modelli Singer riadattati, non certo attrezzatura industriale. I banchi da lavoro erano attaccati al muro di fronte all’ingresso, coperto da una striscia di piastrelle bianche che poi lasciano spazio a un tufo giallastro e poroso, tenuto insieme da una impercettibile bava di calce.
Matilde, Antonella, Giovanna, Tina e Mariella lavoravano in fila indiana, ognuna dava le spalle all’altra, soluzione obbligata per lasciare libero un passaggio accanto a loro, in uno spazio oblungo e ristretto. Cucivano e impilavano le maglie sul tavolo, ogni tre dozzine si fermavano per portare la merce nello scantinato. Lavoravano a cottimo, dipendeva dalle commesse che Salvio Cinquepalmi, il titolare, riusciva a prendere dai negozi di Bari e Bisceglie. Ad agosto non aveva lavorato nessuno, a luglio solo dieci giorni di apertura. Settembre era cominciato bene, c’era addirittura bisogno di manodopera. «Cercasi ragazza» era il cartello appeso alla porta. Sotto, il numero del cellulare di Salvio, perché il maglificio non aveva un telefono fisso.
«Ricordo tutto». Come una fotografia. Sulla parete che portava al bagno c’era l’albero di Natale disegnato con i pastelli da Maria, c’era l’immagine del Cuore di Gesù, c’erano una serie di quadretti con i motti tipici dei commercianti, sul frigobar era appiccicato il santino di Padre Pio. Quarto piano dell’ospedale Dimiccoli, reparto di Chirurgia, stanza singola perché 12 ore da sepolta viva ti lasciano addosso la voglia di urlare fino farti scoppiare le corde vocali. Mariella Fasanella è l’unica che può raccontare questa storia di donne, è l’unica operaia sopravvissuta. I suoi occhi piccoli ridono quando le viene chiesto di ricordare la vita com’era. «Si stava bene. Savio e sua moglie non sono degli sfruttatori. A giugno ci avevano anche messo la zanzariera alla finestra, perché di sera ci riempivamo di punture. Loro aiutavano persone che avevano bisogno, in fondo eravamo tutte ragazze madri».
In questa voce carica di rimpianto, che esce a fatica da una bocca tumefatta, c’è il paradosso che rende ancora più tragica la storia di Barletta. «Eravamo noi a chiedere di non essere registrate» dice Mariella. Niente contributi, più soldi possibile sull’unghia, il patto era questo. Nessuna di loro aveva la vocazione del taglia e cuci. Matilde era la capa, non per l’età, ma per il mestiere. Lo aveva imparato da una vecchia zia, era l’unica ad essere nata sarta. Le altre ragazze, come lei, venivano da lavori perduti. Quando sente parlare di lavoro nero, Mariella quasi si solleva sullo schienale del letto. Estrae dal lenzuolo la mano destra, così gonfia che sembra sul punto di scoppiare. A fatica unisce le dita, e le agita. «Ma cosa ne volete sapere, voi che venite da fuori? Per voi contano solo le regole… Ci davano 4 euro all’ora, è vero. Ma adesso non ho nemmeno quelli. E quando esco da qui devo cercarmi subito un altro lavoro, ho tre figli e l’affitto da pagare».
Così si torna in via Roma con la sensazione che niente è come sembra, che le categorie dell’umano e del disumano siano soltanto punti di vista. Gli ispettori che stanno catalogando ogni singolo reperto di quello scantinato parlano di un «confezioni» povero, simile ai tanti cresciuti nella Barletta vecchia. Il declino del distretto tessile ha fatto chiudere le aziende di confezioni, ma non ha piegato l’economia sommersa, l’ha solo fatta proliferare, inabissando l’intera catena produttiva. Nel giro di un isolato si contano altri cinque maglifici, la Cgil stima che nell’intera Barletta ce ne siano almeno altri 200 luoghi, sempre sconosciuti all’Inps.
Sabino Sarcinella aspetta davanti alla porta che si apriva su via Roma. Guarda i blocchi di tufo all’interno e scuote la testa. È il suocero di Antonella Zaza, che stava per diventare nonna a 35 anni perché la sua primogenita Noemi era al terzo mese di gravidanza. L’ultima volta che è passato qui davanti aveva notato qualcosa di brutto. Gli sembrava che la facciata dell’edificio sporgesse verso la strada. A sera lo disse ad Antonella, che era appena rientrata dal maglificio. «Lei mi guardò spaventata: “Ma che, vuoi farci perdere il lavoro?”. Ci ho pensato tanto, in queste ore. E sa cosa le dico? Aveva ragione lei».