Partito rosa no, ma primo ministro sì

In occasione dell’incontro di Siena, promosso da “Se non ora quando”, la rivista Reset ha pubblicato, nel numero di luglio/agosto (in edicola), un forum al quale hanno partecipato Cristina Comencini, Cecilia D’Elia, Valeria Fedeli, Fabrizia Giuliani, Donatina Persichetti e Viviana Simonelli, e interventi di Linda Laura Sabbadini (maternità e lavoro, la catastrofe italiana), Emma Fattorini (Che brave, basta dividersi tra cattoliche e non), Marina Calloni (Perché non siamo libere), Alberto Ferrigolo (Donne e cattolici, spostamenti decisivi). Vi proponiamo l’articolo di Chiara Volpato

Partito rosa no, ma primo ministro sì

di Chiara Volpato

Si sta chiudendo l’epoca berlusconiana, un’epoca nella quale le stanze del potere sono state occupate da parte di un gruppo di affaristi attenti esclusivamente ai propri interessi, guidati da un leader che ha potuto disporre di mezzi inusuali e illegittimi per impadronirsi dello scenario mediatico e dominare la pubblica opinione.

Come sappiamo, il controllo dei mass media è stato uno strumento fondamentale per imporre una serie di contenuti funzionali al mantenimento dell’ideologia berlusconiana. Tra questi ha avuto un ruolo di spicco l’immagine della donna oggetto che, sotto le sembianze della modernità, ha rilanciato un modello arcaico di acquiescenza al potere maschile.

Dopo gli anni Settanta, segnati dalla rivoluzione femminista, capace di proposte che hanno migliorato la vita quotidiana di uomini e donne (legge sul divorzio del 1970, sugli asili nido del 1971, tutela delle lavoratrici madri del 1973, diritto di famiglia nel 1975, istituzione dei consultori nel 1975, parità uomo/donna del 1977, interruzione di gravidanza del 1978), l’attenzione per i grandi temi della parità di genere e dell’entrata a pieno titolo delle donne nella vita culturale, politica ed economica della nazione è andata scemando. Il desiderio di dimenticare l’epoca buia del terrorismo ha favorito, negli anni Ottanta, un clima di apparente spensieratezza, dietro la quale si celava la volontà di chiudere la stagione delle riforme e di riportare indietro il paese. Gli storici che nel futuro si occuperanno di questi anni della storia italiana dovranno spiegare come e perché al periodo dell’apertura sia seguito un periodo di involuzione e regressione, nel quale si è mirato a svuotare di significato o addirittura a cancellare le conquiste ottenute. Si tratta di un discorso troppo lungo e complesso per poterlo fare qui. Vorrei solo accennare a una possibile spiegazione, che chiama in causa la mancata discussione sui trascorsi fascisti della nazione. A differenza di quanto successo in Germania, in Italia non vi è stato un dibattito su quanto successo nel ventennio mussoliniano e sul consenso di massa ottenuto dalla dittatura. Questo fa sì che, nei momenti di crisi, riaffiorino credenze, immagini, rappresentazioni del passato. E’ quanto è successo anche a proposito della condizione della donna e dei rapporti di genere. In questo campo, il tentativo di restaurazione è stato possente. Il potere maschile ha serrato le fila contro la minaccia dell’invasione femminile, impedendo alle donne che stavano entrando in settori fino allora preclusi di ricoprirvi posizioni di leadership. In una cornice ideologica di pura controriforma, la Chiesa è scesa con forza in campo a sostegno delle posizioni conservatrici.

Il risultato di questa politica è l’inquietante ritardo della società italiana non solo rispetto alle più avanzate società occidentali, ma per molti aspetti anche rispetto a società meno fortunate della nostra sul piano della ricchezza e dello sviluppo. I dati oggettivi sono noti: debole presenza femminile nella politica, nell’economia, nell’università, nella cultura. Nonostante le donne italiane conseguano risultati migliori dei loro compagni in tutti i livelli formativi – dalle elementari al dottorato – la presenza delle donne nei luoghi di lavoro è fortemente penalizzata; siamo in ritardo rispetto alla maggioranza degli altri paesi dell’Unione Europea con pochissime posizioni di leadership ricoperte da donne.

Il ruolo dei mass media

La punta di diamante dell’attacco sono stati i mass media, che, grazie alla illegittima egemonia berlusconiana in questo settore, hanno veicolato e imposto un modello di donna apparentemente moderno, in realtà molto antico, il modello della donna bella, disponibile, tranquillizzante e non pericolosa proprio per la sua incompetenza. Come sottolineato da Women and media in Europe, un’indagine comparativa sull’immagine della donna in dieci paesi europei, i media italiani sono permeati nella maggior parte dei casi da un’atmosfera sessista, che riserva alla donna un ruolo di decorazione, ornamento, oggetto.

Il registro dominante è quello del sessismo benevolo, che vede nella donna un essere fragile e grazioso, da proteggere a volte anche contro la sua stessa volontà. Una forma che si trasforma però in ostilità aperta ogni qual volta una donna mostri autonomia e indipendenza. Un atteggiamento sessista permea anche i programmi più indipendenti, in cui si creano sovente situazione nelle quali una sola donna siede tra un gruppo di uomini, divenendo quello che viene definito un token, vale a dire un simbolo illusorio di possibile ascesa sociale, in realtà un mero specchietto per le allodole. Il token/alibi ha una funzione precisa: salvaguardare lo status quo, togliendo forza alle voci di protesta. Quando due gruppi sono fortemente asimmetrici nei rapporti di potere, inserire un rappresentante del gruppo debole tra gli eletti serve a mostrare apertura mentale, paternalistica disponibilità verso l’altro, lasciando inalterato lo status quo. Così i media italiani, televisione in testa, continuano a proporre immagini stereotipiche di donne sorridenti, servizievoli e inoffensive accanto a uomini cui sono assegnati ruoli di competenza e potere. (1)

Quella finora descritta è però solo una delle facce della realtà italiana. Accanto all’Italia che ha accettato e promosso il deprezzamento delle donne, ha continuato a esistere un’altra Italia, nella quale le donne non hanno mai smesso di lavorare, qualificarsi, aprire nuove strade, in un incessante processo di empowerment individuale e collettivo. Le donne di questa Italia hanno, negli ultimi due decenni, lottato giorno dopo giorno negli ospedali, nelle scuole, negli uffici, nelle fabbriche, nelle case, nei molteplici luoghi in cui si esplica la loro attività. La loro resistenza – questa è la parola giusta – ha contribuito in modo massiccio e inequivocabile alla crisi dell’egemonia berlusconiana.

Le donne hanno organizzato proteste e avanzato proposte, in un percorso culminato nelle manifestazioni del 13 febbraio, le più importante degli ultimi anni da un punto di vista quantitativo e qualitativo. Molti dei colpi che hanno segnato lo sfaldamento del più corrotto sistema di potere dell’Italia repubblicana sono stati inflitti da donne; si pensi alle lettere di Veronica Lario, alle inchieste di Ilda Bocassini, alle denunce delle candidature delle veline avanzate da Sofia Ventura, alle tante prese di posizione femminili che con estrema fatica si sono conquistate una citazione sui media, attenti ai minimi movimenti delle stanze del potere, ma spesso sordi a quanto avviene fuori dai palazzi.

Il documentario di Lorella Zanardo – Il corpo delle donne –, ad esempio, ha conquistato, grazie a internet, l’attenzione della società civile e dell’opinione pubblica mondiale tra il silenzio dei media italiani, un silenzio che ha reso per lungo tempo opaco il cambiamento che si stava producendo.

Ora, che un’epoca si sta chiudendo, si intravvede la possibilità di costruire un’Italia più attenta ai bisogni dei suoi cittadini e meno consumata dal tarlo della corruzione. Il passaggio è difficile, nulla può essere dato per scontato. Sappiamo tutti che l’agonia del sistema può durare a lungo; sappiamo soprattutto che chi si troverà a governare l’uscita dal berlusconismo dovrà, da un lato, affrontare una crisi economica gravissima, i cui esatti termini sono volutamente sottaciuti, dall’altro ricostruire la coscienza morale della nazione, provata da una corruzione dilagante.

Un’opera di questo genere, difficilissima e dall’esito non scontato, è possibile solo con il pieno contributo delle donne. Dopo la prima guerra mondiale, in molti paesi le donne hanno conquistato il diritto di voto come riconoscimento del contributo dato durante il conflitto. In modo analogo, si può oggi dire che le donne italiane hanno conquistato sul campo il diritto a una partecipazione paritaria alla gestione del paese. Le donne hanno contribuito al cambiamento, le donne devono partecipare alla costruzione del nuovo. Dato che stiamo ragionando per categorie – esponendoci a tutti i rischi di un ragionamento di questo genere – possiamo dire che l’argomento potrebbe addirittura essere rovesciato: gli uomini italiani hanno dimostrato di non essere capaci di governare in modo corretto il paese; è quindi giusto sul piano etico e opportuno sul piano politico che accettino di cedere, almeno parzialmente, il testimone.

Basta delegare

Per quanto riguarda noi donne, è chiaro che non si può più, oggi, delegare, attendere, farsi da parte. La gravità della situazione richiede che assumiamo l’onere della ricostruzione. È noto che le nazioni che più si impegnano a contrastare con politiche coerenti le disuguaglianze di genere conoscono i successi maggiori sul piano economico e sociale. Il solo modo per l’Italia di ripartire dalle macerie berlusconiane è di cambiare i rapporti di forza tra uomini e donne e impiegare le energie femminili al servizio della collettività.

Si pone ovviamente il problema delle forme che tale partecipazione dovrà prendere. A mio parere, tutte. C’è bisogno di tutti i tipi di impegno, nessuno escluso. Le donne devono continuare a essere movimento di opinione e di lotta, il sale della democrazia. Devono pensare nuove forme di convivenza e proporre modelli di implementazione di tali forme. Una delle debolezze italiane è stata in questi anni la carenza di elaborazione di soluzioni innovative per i molteplici problemi del vivere comune. Il conformismo che ha sorretto il sistema berlusconiano è stato prima di tutto un conformismo mentale. Le donne, proprio perché sono in gran parte escluse dalle stanze del potere, hanno pensieri divergenti che possono trasformarsi in proposte creative. E di questo soprattutto l’Italia ha bisogno: di pensare il cambiamento, uscendo dalle formule del passato e immaginando un futuro possibile.

Questo però non basta. Le donne devono entrare a pieno titolo e in modo massiccio nell’arena politica. Non, a mio parere, fondando un partito, cosa che nella storia non ha mai funzionato – ma lavorando dentro e fuori i partiti, con il coraggio e la forza delle proprie posizioni. Non tutte le donne italiane sono state zitte in questi anni, come una certa stampa ha sostenuto. Sono state, piuttosto, zittite.

Questa situazione deve cambiare. Deve costituirsi un patto tra le donne e i media che non fanno parte della galassia berlusconiana, un patto, in particolare, tra giornaliste e donne che assumono il rischio di prendere la parola. Fare rete, costruire un’alleanza tra chi vuole il cambiamento, ha idee per proporlo e forze per agirlo. Questa è la scommessa. Una scommessa dalla quale dipende l’avvenire del paese. Per vincere questa scommessa è necessario che si lavori con in mente il bene comune, con la volontà di collaborare e trovare soluzioni condivise al di là delle divisioni. A mio parere, uno dei rischi più grossi che corre il movimento delle donne è quello di disperdersi in mille rivoli, di non trovare una voce collettiva, di non costruire insieme. Il passato è stato a volte segnato da rivalità e incomprensioni. Alcuni segni affiorano anche nel presente. Questo è un lusso che non possiamo permetterci. Ma credo che lo sappiamo. Durante l’ultimo governo Prodi, che, contrariamente alle attese, aveva riservato alle donne spazi molto limitati, ricordo conversazioni tra donne nelle quali il sentimento dominante era la necessità di contribuire, caparbiamente, nei diversi contesti quotidiani in cui ci si trovava a operare, perché l’opera del governo avesse successo. Sappiamo tutti come è finita e quanto l’Italia tutta abbia pagato l’insipienza di chi si è reso responsabile della caduta di quel gabinetto. Sommessamente, vorrei dire che ho percepito come molto maschile la logica che in quell’occasione ha prevalso.

Nella fase attuale, c’è spazio per l’apporto di tutte, in un confronto aperto, duro se necessario, ma segnato dalla consapevolezza che la situazione è difficile e che solo unendo gli sforzi si potrà vedere l’uscita dal tunnel.

Donne leader, ma per merito

Tornando al discorso della partecipazione politica, una precisazione non secondaria. Partecipare vuol dire collaborare alla pari. Io credo che metà del nuovo edificio politico, economico e sociale debba essere di mano femminile. Penso sia giusto esigere, semplicemente, che la metà dei parlamentari, dei ministri, dei sottosegretari, delle cariche che contano nell’amministrazione, nell’economia, nella società tutta sia ricoperta da donne. Una metà ovviamente pesata anche sul piano qualitativo. Per una volta lasceremo le pari opportunità, per assumere i ministeri dell’interno, della difesa e dell’economia. Tutti e tre, non uno a scelta. Non si tratta di una ripicca. Anche se – possiamo dirlo? – sarebbe giustificata dalle prove discutibili fornite dal ceto politico maschile di destra e di sinistra, prove che avrebbero provocato l’allontanamento dei responsabili per indegnità e/o incapacità nella maggior parte dei paesi europei.

Sento prepotenti le obiezioni. Le solite, di volta in volta rinnovate, contro le quote e tutti i tentativi di allargare la rappresentanza femminile. Non si rischia in questo modo di cooptare una moltitudine di donne a partire dall’appartenenza di genere e non dalle capacità? Si potrebbe facilmente rispondere che il livello dei politici è tale che il rischio di peggiorare la situazione è veramente esiguo. La pura immissione di donne nella metà delle cariche pubbliche provocherebbe un rinnovamento di per sé positivo. Ma non è questo, o non solo questo, che vogliamo. Quello che vogliamo è che le donne chiamate a posizioni di leadership lo siano sulla base dei loro meriti e delle loro competenze. Meriti e competenze devono contare di più dell’appartenenza a questo o quel partito. Si tratta di un discorso lungo e difficile, che non può certo essere esaurito in poche righe, ma che va, a mio avviso, affrontato in un dibattito aperto che non possiamo eludere.

Anche le ragioni che sorreggono la necessità di una condivisione paritaria tra i generi possono essere solo accennate in questa sede (2). Innanzi tutto si tratta di una semplice questione di giustizia. Gli articoli 3 e 51 della costituzione sanciscono l’eguaglianza di genere nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive.

In secondo luogo, è necessario portare nella politica e nella società una maggiore attenzione ai bisogni individuali e collettivi delle persone. Gli stereotipi tradizionali attribuiscono alla donna doti di calore, comprensione, capacità relazionali e all’uomo doti di energia, forza, competenza. Si tratta di credenze che affondano le loro radici nei ruoli storicamente assegnati ai due generi: le caratteristiche femminili erano indispensabili nel lavoro di cura, quelle maschili nel reperimento delle risorse per la sopravvivenza del gruppo. La rivoluzione femminista ha posto in luce quanto questo schema sia limitato e comprima la ricchezza e la varietà dell’esperienza umana. Liberare la tenerezza maschile e la competenza femminile è forse il suo risultato più importante. Questo percorso è però solo agli inizi. Come Braudel ci ha insegnato, le rappresentazioni mentali sono delle prigioni di lunga durata, cambiano molto più lentamente rispetto ai fatti economici e sociali. Le donne continuano così a essere – e lo saranno ancora per molto tempo – le depositarie privilegiate del sapere relativo alle relazioni sociali e affettive, vale a dire di quel sapere su cui si costruiscono i rapporti di cura e le riparazioni dei conflitti. Questo sapere – spesso assente nel governo della cosa pubblica, non solo in Italia – costituisce una competenza specifica che le donne possono e devono portare nella gestione della politica, dell’economia, della cultura. Si noti bene: la traduzione pratica di questo discorso non è l’assegnazione a una donna del ministero della famiglia, ma lo sguardo diverso che una donna può portare in qualità di ministro della difesa, degli esteri, dell’economia.

La terza motivazione concerne il bisogno di riportare dignità nelle istituzioni. Negli ultimi anni, la politica italiana ha conosciuto un degrado etico senza precedenti.

È necessario un cambiamento drastico, pena la decadenza irreversibile dell’Italia e la sua definitiva fuoriuscita dal novero dei paesi che contano. Lo squallore che circonda l’attuale leadership può essere contrastato solo proponendo figure che segnino davvero una rottura con una situazione di insostenibile vergogna: una donna capo del governo o presidente della repubblica costituirebbe un segnale inequivocabile della volontà di un cambiamento. A mio parere, uno di questi ruoli potrebbe degnamente essere coperto da Rosy Bindi, che ritengo la politica di maggior spessore presente nel parlamento italiano. La sua risposta al premier (“non sono una donna a sua disposizione”) è diventata una frase simbolo dell’opposizione alla prepotenza. In quell’occasione, Rosy Bindi ha mostrato coraggio, passione civile e competenza democratica, esattamente quel coraggio, quella passione, quella competenza che sono indispensabili per traghettare il paese fuori dalla palude nella quale si trova. Rosy Bindi conosce la politica italiana da lungo tempo, è stata più volte ministro e ha affrontato con decisione compiti non facili. Ricordo, in particolare, quando, come ministro della sanità, seppe far fronte con fermezza all’affare Di Bella, affermando il principio che lo stato debba agire con trasparenza, sulla base di verifiche scientifiche, anche di fronte alle richieste di cittadini che si trovano in situazioni di dolorosa emergenza. È, inoltre, un’esponente di quel cattolicesimo democratico capace di dialogare con laici e non credenti, quale io sono, perché distingue tra le ragioni della chiesa e le ragioni della società civile. Per molti aspetti, Bindi ricorda il primo ministro donna della nostra repubblica, Tina Anselmi, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia P2, accantonata proprio per la sua volontà di fare chiarezza sulle trame più oscure della nostra storia recente. Mi piace pensare che, una volta terminato il mandato di Napolitano, Rosy Bindi possa diventare la prima donna presidente della repubblica. Vederla passare in rassegna i corazzieri sarebbe un segnale di inequivocabile rottura con la presente miseria, politica e istituzionale, e, contemporaneamente, un segnale di continuità con la migliore tradizione democratica del nostro paese.

Note

1) Volpato, C. (2010). Token Show. https://donnedellarealta.wordpress.com/2010/01/10/token-show/

2) Un approfondimento della questione si trova in: Maass, A., Mucchi Faina, A., & Volpato, C. (2009). 50/50, L’antitrust della politica. MicroMega, ottobre. http://temi.repubblica.it/micromega-online/5050-l%E2%80%99antitrust-della-politica/

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