La famiglia borghese. L’impegno sociale. La maternità. Il matrimonio. La vela. L’aspetto fisico. Il sindacato. Susanna Camusso, nuova leader della Cgil, si racconta
di Stefania Rossini
È lì, seduta tranquillamente, come se fosse la cosa più naturale del mondo occupare la scrivania che è stata fino a ieri di Epifani, e prima ancora di Cofferati, di Trentin, di Lama, su su fino a Di Vittorio che la guarda dall’alto, nel famoso ritratto di Carlo Levi appeso da sempre nella stanza di comando della Cgil. Susanna Camusso è esattamente come l’hai vista in tv: formale e burocratica come quando va a difendere le ragioni del sindacato a “Ballarò”, intensa e partecipe come quando elenca le discriminazioni di genere sul lavoro a “Vieni via con me”. La prima donna alla guida del più grande sindacato italiano sembra decisa a imporre sul terreno minato del conflitto sociale quel doppio registro, di testa e di cuore, che è sempre stato considerato una debolezza femminile. Che effetto farà fuori e dentro la Cgil, unica organizzazione novecentesca sopravvissuta, è tutto da scoprire. Ma intanto Camusso si gode stupori e riconoscimenti mentre prepara il debutto più tradizionale e impegnativo, quello della piazza nella sua prima manifestazione nazionale come leader.
La sua elezione è stata celebrata come un evento epocale. Come ci si sente a cavallo della storia?
“Piena di responsabilità, compresa quella di contribuire a restituire dignità alle donne”.
Non ce l’hanno più?
“Eccome se ce l’hanno, ma deve tornare ad essere riconosciuta. In Italia l’immagine della donna è ormai legata al mercimonio. Molte delle donne alla ribalta non sono il risultato di un processo di emancipazione, anzi hanno contribuito a interromperlo perché sono lì per la scelta di un maschio, di un capo. Questo ci fa prendere sberle un po’ da tutti”.
Lei ha fatto da sé. È stato difficile?
“Come in tutte le competizioni sane. E poi nel mondo sindacale, che viene considerato arretrato solo perché è l’unico a non aver perso radici e identità, la mia elezione è stata vista come un risultato collettivo, specie dalle delegate e dalle iscritte. A smentire, una volta tanto, la questione dell’invidia tra donne”.
Ora però questo potere guadagnato si tratta di gestirlo. Ha una sua ricetta?
“Sì, è quella di tessere, tessere e cercare di non spezzare mai il filo”.
Sembra una scelta un po’ ancillare.
“Tutt’altro. Dobbiamo cominciare ad accettare il fatto che la divisione del lavoro tra uomini e donne non si deve solo alla discriminazione patriarcale, che pure c’è ed è potente, ma è anche una nostra specificità”.
Quale sarebbe?
“La capacità di fare relazioni, affettive e quindi sanamente conflittuali, che non mirano a separare ma a trovare punti di incontro. Passiamo la vita a tessere relazioni in casa, in famiglia, nel quartiere… come facciamo a non mantenere questo sguardo mentre lavoriamo?”.
Quindi adesso con Emma Marcegaglia, un’altra donna a capo della controparte, sarà tutta una tessitura?
“Beh, terremo il filo, ma senza dimenticare le rispettive funzioni e le questioni di merito. Io prendo la responsabilità del sindacato nel momento più devastante della storia recente, la crisi economica, il declino dell’Occidente, le cesure violente nei rapporti tra uomini e donne, giovani e vecchi, migranti e nativi. E il tutto dipanato in un eterno presente che Berlusconi contribuisce a rendere senza sbocco. In questo clima il mio primo compito resta la difesa del lavoro”.
Che intanto è cambiato profondamente. Come pensa di affrontare il nuovo schiavismo, il lavoro immateriale, quello telematico e senza orari con un’organizzazione tarata sulla classe operaia e sugli statali?
“È questo il punto. Non abbiamo più una figura di riferimento da cui partire per costruire tutte le politiche. Negli anni Settanta l’operaio massa fu un simbolo che ci aiutò a dare una grande spinta alle lotte di tutti. Oggi, nella convivenza di lavori di ogni tipo dobbiamo individuare una figura policentrica che tenga insieme il vecchio e il nuovo e rappresenti anche l’esercito di invisibili schiacciati dall’illegalità. È un compito difficile ma non impossibile”.
da L’Espresso – 29 novembre 2010