di Rosanna Rossanda
È morta domenica mattina in una clinica romana Rina Gagliardi devastata da un cancro così rapidamente diffuso che forse neppure è riuscita a rendersene conto. Aveva 63 anni ma ancora il piglio e il volto sorridente della studentessa approdata al manifesto appena uscita dalla Normale di Pisa, piccoletta, sapiente e un po’ sbiadita che si annidava fra sfolgoranti Ritanne, Sergi e Mauri. Sessantottina come i suoi coetanei ma costruita attorno a una cultura critica, che non la inclinava a troppo facili riscoperte della persona, dell’io, del piacere, della provocazione. Ne veniva persino un freno alla prepotente curiosità, penso alla sua chiusura al femminismo. Rina era vaccinata contro lo stalinismo da un amore sconfinato per Rosa Luxemburg e guardava al movimento operaio e comunista senza illusioni ma senza indulgere a troppe divagazioni. Questo suo modo di essere, credo, la portò subito al manifesto perché noi rappresentammo dopo il 1969 la critica piu radicale e meno fantasticante a un “socialismo reale” che stava per sprofondare.
Quelli di noi, d’una generazione precedente, che hanno visto arrivare verso di sé una leva di giovani come lei sono responsabili di non averli aiutati, e forse capiti, abbastanza, di non aver accettato di scontrarsi con la loro diversità come se fosse un ritardo, e di averli lasciati smarrirsi nelle peripezie di una sinistra che vent’anni dopo sarebbe stata senza riferimenti. Certo non riuscimmo a darne noi, che avevamo tenuto orgogliosamente negli anni Settanta e Ottanta, avevamo preveduto la crisi mortale dell’Urss, e nell’89 pensammo che si sarebbero liberate una riflessone e un pratica separate finalmente da un sistema soffocante. Non devono aver vissuto allo stesso modo la caduta del muro di Berlino i più giovani, che dell’est non avevano conosciuto la storia e le sofferenze e la resistenza ai nazisti durate la guerra. Di sicuro credevano nell’ondata assieme radicale e libertaria che pareva trascinare tutto l’occidente. Quando questa cadde, si trovarono senza presente e senza una spiegazione seria del passato.
Rina fu più irritata che turbata dal riflusso che investiva anche noi. Rosa finiva ammazzata a colpi di calci di fucile durante una sconfitta che vide ma in una guerra del cui esito non dubitava. Rina dubitò presto del narcisismo di un’eterna ricerca, temette la debolezza dei singoli, il permanente rinvio della costruzione di un gruppo e scoprì volentieri che nella cultura degli spartachisti stava anche l’inflessibilità di Rosa nell’organizzazione. Aveva anche, come tutti, bisogno di una appartenenza, che significa poi la capacità di stare con altri, forse autolimitarsi. La cercò, questa appartenenza, prima nel manifesto, che diresse con Paissan e Gigi Sullo, e quando nei primissimi Novanta qualcuno di noi lanciò un grido di pericolo fece subito blocco col collettivo: ma come? Ma che c’è? Tutto va bene.
Poco dopo lasciava il manifesto ed entrava in Rifondazione. Scopriva le poche ma non aggirabili virtù di un partito per chi spera non solo di commentare fatti, ma di agire su di essi. Da allora lavorò nel partito ma, nata in un giornale, soprattutto in Liberazione con Curzi e con Sansonetti, divenendo quel che sarebbe rimasta sempre, osservatrice politica acuta e polemista fedele a un’autorità riconosciuta, che, da toscanaccia qual era, non risparmiava frecciate alle dissidenze. Non senza pescare nella cultura anche in tv, mezzo che per la cultura non è fatto, dove la sua testolina ben pettinata e sorridente cercava di imporre ai dibattiti argomenti e riferimenti sconosciuti ai più. Dovette vivere come un fallimento la conta e la rottura di Chianciano – silenziosa in fondo alla sala, atterrata dalla fine di un progetto che non le era stato del tutto ovvio accettare. Non si è comunisti da soli.
Rina è stata anche felice. Aveva una sua vena vitale e popolare di golosità, sedotta come Brecht da un buon vino e da una buona idea, sapeva tutto di musica e di football. La ricordo nelle riunioni più noiose inventare su fogli quadrettati le formazioni calcistiche, alla Lippi o Bearzot o Sacchi o come altro si chiamasse allora il coach della nazionale. Conosceva Bach e Mina, aveva una bella voce e le piacevano le feste. Scrisse per anni su Liberazione con gusto e forse una soddisfazione che al manifesto le era mancata. Ma soprattutto, dopo un non felice legame con l’infelicissimo Giovannino Forti, incontrava Bruno Morandi, Dado, e furono una vera coppia, in politica e in un comune gusto per la vita. Non tutti ne sono capaci. A Dado, ora solo, vanno i pensieri affettuosi di chi le ha voluto bene.
da Liberazione 29/06/2010