L’Espresso parla, nel numero in edicola, di “Womenomics“, il libro di successo di due giornaliste televisive, Claire Shipman e Katty Kay. In sintesi, Antonio Carlucci, autore dell’articolo, (“Ragazze Womenomics”, L’Espresso 20/2/2010) scrive che il libro «fotografa perfettamente la svolta: sempre più donne scelgono la flessibilità nell’orario di lavoro e usano ogni ora di tempo guadagnata per dedicarla a se stesse, ai figli, alla famiglia, ai propri passatempi. E sempre di più vengono accontentate perché le aziende, gli studi professionali, i giornali, sanno che lavoreranno meglio e con maggiore serenità. E alla fine daranno molto più valore al loro lavoro». Ma tutto questo succede in America dove «l’ultimo dato di inizio febbraio dice che gli occupati negli Usa sono per il 50,1% donne e per il 49,9% uomini». A riportarci alla nostra diametralmente opposta realtà è l’intervento dell’economista Irene Tinagli, docente di Economia delle imprese all’Università Carlos III di Madrid. Ve lo proponiamo qui di seguito.
«Hai potere e non lo sai: dipende solo da te». Questo, in sintesi, l’approccio di “Womenomics” di Claire Shipman e Katty Kay. Alla base di questa tesi accattivante, però, c’è un piccolo malinteso di fondo. È vero che da anni molti studi economici mostrano il ruolo cruciale delle donne in economia: un loro maggior coinvolgimento

Irene Tinaglia
nella forza lavoro porterebbe a un aumento considerevole del Pil, la capacità di dialogo e mediazione le rende manager affidabili, l’abilità nel multitasking e nelle relazioni fanno di loro figure versatili in azienda.
Verissimo. Ma queste affermazioni nascono da stime fondate su una potenzialità di cui in realtà molte aziende, istituzioni e policy makers non sono ancora consapevoli. In altre parole: questi studi mostrano un potere delle donne potenziale ma non necessariamente reale. Soprattutto per quella moltitudine di donne che a certe posizioni manageriali in cui sarebbero così brave non arrivano mai. Di fatto ancor oggi moltissime faticano persino a entrare nel mondo del lavoro, o si scontrano con sistemi organizzativi rigidi che le costringono a ridimensionare le ambizioni, ad auto-escludersi da molte opportunità. Milioni di donne non hanno nemmeno la possibilità di mostrare quanto sono brave e insostituibili, per loro è difficile se non impossibile negoziare e farsi valere sul posto di lavoro. Basta pensare all’Italia, dove oggi lavora il 47,2 per cento delle donne contro il 70,3 degli uomini: divario enorme, tra i più alti

Katty Kay e Claire Shipman
d’Europa (in cui la media delle donne occupate è del 59). Non solo: quando trovano lavoro, le donne fanno molta più fatica a crescere professionalmente: in certi casi abbandonano o restano in situazioni lavorative discontinue, entrano ed escono dal mercato a seconda delle fasi della vita, non riuscendo a sviluppare un percorso solido e gratificante. Il lavoro femminile è ancora molto condizionato da fattori sociali ed economici che lo rendono strutturalmente più debole di quello maschile, più ghettizzato in mansioni che danno minori possibilità di affermazione. Il lavoro femminile tende ad essere concentrato in pochi settori, tipicamente servizi e commercio, che inevitabilmente offrono minori opportunità di carriera e gratificazione. Pochissime le donne in settori chiave per l’innovazione come scienze, ricerca, chimica, ingegneria e così via. Non solo: all’interno dei settori in cui sono più presenti, le donne tendono ad avere posizioni inferiori, a fare più fatica a fare carriera. le donne che hanno lavori amministrativi sono molte: se guardiamo alle statistiche, la presenza di donne e uomini nel comparto occupazionale “amministrazione e management” è quasi paritaria, ma se guarda il dato disaggregato per livello al top management le donne sono pochissime. E più si sale più diminuiscono, in Italia e altrove.
Le donne in posizioni manageriali sono il 31-32 per cento in Spagna e Belgio, il 28 in Norvegia, il 26 in Olanda, il 35 in Germania, un imbarazzante 20-21 in Italia. Salendo ancora, nei consigli di amministrazione la presenza femminile è ancora più esigua: il 12-14 per cento negli Usa, l’8 in Germania, il 5 in Francia, il 2 in Italia. I motivi dei divari sono molti e non attribuibili solo a scarsa determinazione delle donne stesse. Fattori sociali e culturali penalizzano anziché premiare le donne in carriera, o ne indeboliscono il potere negoziale perché mostrandone la forza danneggiano addirittura immagine e posizione: si vedano lavori come “Women don’t ask” e “Asking for it”, di Linda Babcock, della Carnegie Mellon University. Così come ci sono fattori di tipo economico: un recente studio della Bocconi mostra che la maternità di una donna costa in media all’azienda 23mila euro, e questo spiega la reticenza di molte imprese ad assumerle o affidare loro incarichi di responsabilità. Tutti questi aspetti rappresentano ostacoli enormi e non possono essere affrontati e risolti con un po’ di auto-analisi da parte delle donne, Più consapevolezza del ruolo può certo aiutare quel 5 o 10 per cento di donne in posizioni già forti, che ha fatto vedere quanto vale ed è insostituibile. Ma per il restante 90 servono politiche innovative, che faranno bene a tutto il sistema economico. Allora sì, vedremo il dispiegarsi della “Womenomics”.
Irene Tinagli
Solo per segnalare che in Italia sul tema è uscito a fine 2009 Donne sull’orlo della crisi economica, edito da Rizzoli. Nei prossimi mesi diversi gli incontri di presentazione:
7/3/2010 Biblioteca Comunale di Arese
8/3/2010 Fiera di vicenza
8/3/2010 Italian Book Shop Londra
9/3/2010 Librerie Coop Bologna
13/3/2010 Circolo dei Lettori Torino
Speriamo di incontrarvi per continuare il confronto.
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