Il prezzo della maternità

Il Corriere della Sera dedica ampio spazio al caso della responsabile marketing milanese della Red Bull Italia che ha dichiarato di essere stata spinta alle dimissioni al rientro dalla maternità. Sul prezzo in termini di occupazione che le donne italiane pagano per avere dei figli lo stesso giornale ha svolto un’inchiesta il 9 febbraio. Ve la proponiamo qui di seguito.

Lo studio: l’indagine in 134 imprese dell’Osservatorio sul «diversity management» della Sda Bocconi. La differenza: con figli che hanno meno di un anno il tasso di attività sale dall’85,6 al 96,6% per gli uomini, scende di dieci punti per le donne

Il doppio prezzo della maternità

La dipendente che decide di fare un figlio è considerata «un affaticamento» per l’impresa Per questo c’è chi evita le assunzioni al femminile. Alle aziende la lavoratrice che fa un figlio costa 23.200 euro. E per le neomamme perdita del posto in un caso su quattro

di Corinna De Cesare
Corriere della Sera 9 febbraio 2010

Sul lavoro sono considerate bravissime, acute e intelligenti. Ma quando arriva la maternità sono tutti pronti a cambiare idea. Nel 2005, secondo un’indagine della Camera di commercio di Milano, il 76% dei dirigenti pensava che le donne meritassero più posti di responsabilità. Eppure per il 77% degli stessi dirigenti, la maternità sul lavoro rappresentava un handicap.

A distanza di cinque anni è cambiato qualcosa? È convinto di no Maurizio Ferrera, autore di Fattore D. Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia (Mondadori): «Si tratta di un ghiaccio talmente spesso che farà molta fatica a sciogliersi – spiega il professore di Scienza politica all’Università degli studi di Milano – da un lato bisogna sperare che cambi il clima, ma dall’altro bisogna utilizzare il martello per aiutare la rottura.

Purtroppo anche le aziende che assumono associano alla donna il rischio di dover un giorno sottoporre la propria organizzazione a un affaticamento. Ed evitano il reclutamento. Per lo stesso motivo non si pensa alle donne per ruoli di responsabilità». Ma quanto costa effettivamente alle aziende la maternità? È la domanda a cui ha cercato di dare una risposta l’Osservatorio sul diversity management della Sda Bocconi School of Management, che su questo argomento ha realizzato un’indagine su un campione di 134 grandi aziende oltre i 300 dipendenti. Interrogati, i direttori del personale si sono tutti affrettati a dire che «sì, la maternità costa troppo».

Sul quantum però nessuna risposta. «Ci avevano lasciato uno spazio bianco sul questionario – spiegano Simona Cuomo e Adele Mapelli, coordinatrici dell’Osservatorio, che dall’analisi realizzata hanno pubblicato il libro Maternità quanto ci costi?, edito da Guerini e Associati – per cancellare questo stereotipo abbiamo deciso di fare i calcoli effettivi». Il risultato? La maternità rappresenta per le imprese lo 0,23% del totale dei costi di gestione del personale. E il perché è presto detto: l’indennità economica per la maternità obbligatoria di cinque mesi è pagata dall’Inps ed è pari all’80% della retribuzione media globale giornaliera percepita nell’ultimo mese di lavoro.

Stessa cosa succede per la «facoltativa», ora chiamata congedo parentale: alla mamma spetta il 30% dello stipendio, che anche in questo caso viene pagato dall’Istituto di previdenza. Cos’è dunque a carico dell’azienda? «L’affaticamento organizzativo – spiega Adele Mapelli – la sostituzione, la formazione per la sostituzione, il reinserimento della mamma a lavoro, le eventuali assenze non programmate, l’incertezza relativa alla possibile perdita di capitale umano». Che si traduce in un totale di 23.200 euro.

Non proprio poco, obietterà qualcuno, ma la cifra (simile a quello che le aziende medio-grandi spendono per la cancelleria), è giustificata dal fatto che il campione analizzato dalla Bocconi è costituito da aziende di grandi dimensioni. Più l’impresa è piccola e più i costi scendono. E inoltre, spiegano dall’Osservatorio, «se il processo viene gestito in maniera corretta, la maternità può addirittura diventare un beneficio». Basti pensare che il progresso generato dall’ingresso delle donne nel mondo del lavoro ha rappresentato, secondo illustri economisti, il contributo maggiore alla crescita dei Paesi sviluppati dell’ultimo secolo.

La stessa Emma Marcegaglia, nel suo discorso di investitura ai vertici di Confindustria, ha quantificato il vantaggio dell’ occupazione femminile: +7% del prodotto interno lordo. Ma perché allora la maternità fa così tanta paura e il 25% delle donne del Sud (contro il 19% di quelle del Nord) si ritrova disoccupata dopo la nascita del primo figlio (fonte: Bocconi)? Conosce bene l’argomento Federica Vedova, consigliera delle Pari opportunità della Provincia di Venezia, che in sei anni ha raccolto oltre trecento casi di maternità discriminatoria.

Alcuni di questi raccontati nel volume Attacco alla maternità pubblicato da Nuova Dimensione a cura di Marina Piazza. «Il mondo del lavoro accoglie malissimo questo tema – conferma la consigliera, che con la direzione provinciale del lavoro ha attivato un protocollo di intesa che le segnala tutti i casi di dimissioni “volontarie” a un anno dalla nascita di un figlio – la reazione delle aziende è per lo più scomposta e non razionale, è una seccatura a cui segue il panico.
C’è chi comincia a non concedere le ferie e i permessi obbligatori per legge e chi addirittura dà avvio a una sfrenata attività di mobbing». Tra gli episodi raccolti nel libro c’è il caso dell’azienda che «culturalmente non concede part-time a nessuno» o quello della ragazza che dopo aver lasciato il lavoro dice: «Non è che ho deciso di stare a casa a fare la mamma, ho deciso che in quel posto da mamma non potevo lavorare».

Oppure c’è il caso di Claudia (nome di fantasia, ndr), rappresentante sindacale che dopo il rientro dalla maternità e un part-time ottenuto a fatica, si sente dire dal suo capo: «Tu non puoi coordinare nessuno in quattro ore, tu vai a fare il tuo lavoretto da quinto livello». Dopo un demansionamento e una causa vinta, anche Claudia ha deciso di lasciare il suo impiego.

«Il punto è che si dovrebbe passare dalla maternità alla genitorialità – spiega Maurizio Ferrera – con il carico delle responsabilità equamente diviso tra uomini e donne. Perché non è solo la mamma che deve occuparsi del bambino. Per questo è importante incentivare la paternità e modificare la normativa in modo tale che, se sono i papà a prendere i permessi, la coppia possa avere ulteriori vantaggi.

Ma purtroppo su questo punto c’è il retaggio di una vecchia cultura sulla divisione dei ruoli che è inconsapevolmente interiorizzata anche dalle donne. Smettiamo di pensare che i padri che prendono il congedo siano delle femminucce». Non è un caso se in presenza di figli di età inferiore a un anno, il tasso di attività degli uomini sale dall’85,6% al 96,6%, mentre quello delle donne scende dal 64,2% al 54,2% (fonte: Isfol).

Perché maternità in Italia fa rima con discontinuità (occupazionale): se prima della nascita di un figlio infatti lavorano 59 donne su 100, dopo tale evento continuano a essere impiegate solo 43 donne su 100, con una perdita di partecipazione netta di 16 donne. Non solo. Più in generale continuiamo ad essere lontani dagli obiettivi di Lisbona secondo cui nel 2010 l’occupazione femminile sarebbe dovuta arrivare al 60%. Siamo al 47,2% e ad alcuni già sembra un miracolo.

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